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giovedì 24 novembre 2011

Silvia Bernardini

101 donne che hanno fatto grande Roma. Finalmente un libro che racconta le donne, ho pensato. Inizia dalle più conosciute, è normale. Dalle donne che la storia ufficiale ha avuto la benevolenza di far sopravvivere a Cesare, Garibaldi, o ad uno dei settecentomila papi di Roma. Tutti maschi. Una storia a ‘sesso unico’ più che a ‘senso unico’.
Poi mi è stato chiesto di scriverne una da aggiungere alle 101 precedenti. Due considerazioni mi frenavano. Può un uomo raccontare una donna? Se è lui a raccontarla, continuerà a non avere una voce propria! Avevo anche un’altra resistenza. Non solo la ‘Storia’ è riservata ai maschi, ma spesso si occupa esclusivamente delle gesta dei così detti ‘grandi’. Delle persone comuni nei libri non c’è traccia. Ma “Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Sono stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?”. No di certo. E’ ovvia la risposta al quesito retorico posto da Brecht. Sono state le persone comuni.
Di recente sono stato ad una manifestazione. C’erano molti giovani. Tra loro migliaia di ragazze. Scese in piazza per far somigliare il mondo ai propri sogni. Come Silvia quel giorno. Il 12 Maggio 1991. Era un corteo di commemorazione per Giorgiana Masi. Durante la manifestazione ci fu un po’ di tensione, ma nessun incidente. Ripensavo a lei guardando i volti delle ragazze. I dubbi sulla donna da raccontare si dipanarono. Avrei scritto un episodio della sua breve vita. Lo avrei fatto con le sue parole, che venti anni prima le avevo chiesto di scrivere. La storia la fanno le persone come lei. Coloro che non sanno di farla. Chi lo diceva? Tolstoj?
Magari Silvia lo aveva letto! Studiava all’università. Si interessava di letteratura, di politica. Voleva anche lei un mondo diverso. Era intelligente. Un po’ introversa, ma solo ad un primo impatto. Schiva, ma sempre sorridente. Di una bellezza particolare. Non accettava di omologarsi neppure su quel piano. Aveva i capelli rossi. Non proprio rossi, color rame. Esile. Uno sguardo disarmante che ti arrivava diretto, anticipando lo stupore per il colore azzurro degli occhi. Aveva sempre tra le mani un numero di Dylan Dog.
Quando la incontrai all’università, sulle scale della facoltà di Lettere, era da un po’ che non la vedevo in giro.
«Ciao. Finalmente ti rivedo. Sei scomparsa? »
«Non hai saputo niente? »
«Di cosa? Cosa avrei dovuto sapere?»
«Mi hanno fermata dopo il corteo per Giorgiana Masi. Mi hanno riempita di botte. Sono stata malissimo. Mi sono chiusa per un po’ in me stessa»
Sono rimasto sbigottito. Era introversa. In fondo non ero neppure il suo migliore amico. Le sue parole erano flebili, tremolanti. I suoi occhi si nascondevano al mio sguardo. Pensai che la sua inaspettata confidenza nascondeva il desiderio di raccontare quanto le era capitato di vivere.
«È una cosa orribile. Dovresti farlo sapere pubblicamente. Devi liberarti in qualche modo».
«Si ma non ho voglia di sporgere una denuncia alle stesse persone che mi hanno fatto male. E poi non voglio espormi».
«Hai ragione. Ti propongo una cosa. Sto per far uscire un libro di poesie contro la guerra del golfo. Potresti scrivere quello che ti è successo. Il libro sarà anonimo. È un modo per far sapere. Non comparirà il tuo nome».
«Si. Così mi va. Ho bisogno di farlo».
Non passò neppure una settimana. Mi consegnò le pagine con il suo drammatico racconto. Lo lessi tutto d’un fiato.
“Ogni volta che ripenso a quello che è successo a me e ad altri due compagni qualche mese fa, non posso non sentire una specie di nodo allo stomaco che mi stringe e un senso di rabbia che mi sale dentro e che vorrebbe  esplodere, come quel giorno appunto.
Tornando dal corteo io e gli altri due compagni risalivamo una via insieme a molti altri ed eravamo neanche seguiti, ma praticamente circondati da uno smisurato schieramento di forze dell’ordine. Polizia armata fino ai denti, minacciosa e provocatoria e tantissima polizia politica naturalmente. Mentre camminavamo ci sono stati battibecchi, cose da poco, tra il nostro gruppo e i poliziotti di un blindato. Ad un certo punto abbiamo notato una macchina con dentro quattro elementi della polizia politica che sembravano guardarci con particolare attenzione. Sarà un’impressione, ci saremo sbagliati pensiamo, un po’ di paranoia. Alla fine della via li vediamo fermarsi a parlare con un altro elemento della polizia politica che conosciamo bene, un habitué dell’università, delle nostre facoltà quotidianamente e intensamente presidiate, controllate. Ci indica poi non li vediamo più. Alla stazione incautamente prendiamo l’autobus. È al capolinea e su quelli accanto salgono altri compagni. Ci sentiamo tranquilli, ma stranamente quegli autobus partono tutti prima del nostro e a un certo punto ci accorgiamo di essere rimasti soli, circondati solo da estranei. Sapremo poi che i quattro della polizia politica che avevamo visto a via Cavour ci stavano cercando sugli altri autobus e non avendoci trovati, li avevano lasciati partire, mentre avevano fermato il nostro.  È un attimo, appena il tempo di capire la situazione e i quattro della polizia politica salgono sull’autobus.
«Tu, tu e tu» fa uno piccolo e tozzo.
Cerchiamo di prendere tempo, ma un altro alto e grosso con dei guanti di pelle nera ci prende chi per un braccio chi per un orecchio. Ci fanno scendere. I bastardi si presentano subito: schiaffi, spinte, lì di fronte al capolinea, mentre i presenti, gli estranei, guardano incuriositi e basta. Non una parola, non un sussulto. Ci portano alla macchina parcheggiata poco distante, vicino ad alcune lamiere e cominciano. Sono schiaffi, fanno male, ma forse meno delle parole, degli insulti di quei bastardi. Quello con i guanti è il più eccitato.
«Stronza, zecca – mi dice – l’hai mai preso il cazzo a mestiere troia?» e giù una marea di sputi in faccia.  Ci fanno una vera doccia di sputi.
«Siamo fascisti – ci dicono e sembrano usciti da un manuale degli anni ’70 sull’agente di polizia politica modello – le zecche come voi le schiacciamo» e giù schiaffi, spinte, soprattutto sui due compagni.
Non ci spiegano nulla. Inutile chiedere, domandare, le risposte sono solo botte, insulti. Mi giro perché vedo uno dei quattro che prende a capocciate un compagno ed allora quello con i guanti mi prende la faccia e mi sputa a mezzo millimetro, mi continua a stringere e poi di nuovo «troia, gettone, mi ti inculo, ora vedi cosa ti succede».
Mi sento morire per la rabbia, l’impotenza. Non puoi parlare, non puoi reagire, si accaniscono sempre di più. Vedo i compagni con le facce rosse gonfie, il dolore che diventa rabbia: bastardi.
«Ci tiravate sassi al corteo, vi abbiamo visto - ci dicono – adesso conoscerete la galera, questa volta avete chiuso».
Intanto arriva anche una macchina della polizia. A me e ad un mio compagno ci caricano su questa, l’altro su quella della polizia politica e se almeno per noi due il tragitto fino al commissariato è relativamente tranquillo, per lui, solo con quei bastardi, non è così. Ma il peggio doveva ancora arrivare e immaginavo che sarebbe arrivato al commissariato, dove tutta la loro peggiore brutalità fisica e verbale avrebbe potuto avere libero sfogo lontano da qualsiasi occhio indiscreto. Pensavo questo in macchina, mentre sentivo dentro di me anche la paura, ma soprattutto tantissima rabbia, un disperato senso d’impotenza perché ad ogni reazione erano botte, insulti, perché vogliono solo umiliarti, metterti in uno stato di tensione assurda, farti sentire una merda; ma neanche per un istante volevamo dargli questa soddisfazione ed allora ostentavamo indifferenza e loro si accanivano, li irritava. Cercavano a ogni costo la nostra reazione per avere un pretesto, per poterci trattenere, perché loro, nonostante quello che dicevano, non potevano arrestarci senza un motivo e noi questo lo sapevamo bene.
Arrivati al commissariato siamo entrati in una stanza e ci hanno fatti mettere contro una parete a vetri. Sono arrivati, oltre ai quattro, altri elementi della polizia politica che hanno cominciato a spingerci e a prenderci a calci. Erano una decina. C’era una donna. Stava da una parte, ci guardava con disprezzo, non diceva nulla, non ho potuto fare a meno di guardarla a lungo. L’ho odiata forse più degli altri che ci picchiavano. Come poteva, essendo una donna oltre che guardia, non sentirsi ferita, non dire nulla di fronte a quello che mi veniva detto soprattutto da quel bastardo con i guanti.
«Io mi ti inculo, ora lo vedi che ti succede. Quando vai in carcere tu vieni in macchina con me; l’hai mai visto il cazzo di un poliziotto? È grosso come un manganello non come quello dei compagnucci tuoi».
A quel punto non ce l’ho fatta più a sentire i suoi insulti.
«Fai schifo», gli ho detto, o qualcosa del genere e allora s’è sfogato a schiaffi, a calci; mi faceva male alla testa che ad ogni schiaffo sbatteva alla porta a vetri. Poi ha cominciato a passarmi la sigaretta vicino alla faccia ed a tirarmi la cenere sul viso continuando.
«Troia, puttana, l’hai mai preso il cazzo a mestiere?» ed al mio istintivo spostarmi ancora botte, spinte. Così ed anche peggio per i due compagni.
Capocciate, teste sbattute sulla porta a vetri, schiaffi, dieci contro tre i bastardi. Ad un certo punto portano un compagno in un’altra stanza. Sentiamo schiaffi, strilli, quella pressione allucinante che ti fanno spingendoti in continuazione, urlando; ci giriamo istintivamente verso la stanza, ma ogni volta che proviamo a voltarci, a vedere, ci arriva uno schiaffo, e intanto ridono questi schifosi bastardi. Quando riportano il compagno, quello con i guanti sembra più eccitato, prende le teste dei compagni e le fa sbattere sulla mia che sto in mezzo. Sto male, cerchiamo di tranquillizzarci a vicenda; stringo il braccio del compagno vicino, lui la mia mano. Sembra che quest’incubo non passi mai. Ad un certo punto entrano dei poliziotti. Tornano dal corteo. Sono esagitati, carichi.
«Questi vi tiravano i sassi al corteo» insistono i quattro che ci hanno fermato, e i poliziotti uno per uno, passandoci davanti e poi tutti insieme a semicerchio davanti a noi, ci sbattono addosso i caschi, ci prendono a calci, ci sbattono dovunque, soprattutto contro la solita porta a vetri. Li ferma un graduato.
«Ragazzi non facciamo i cretini» dice, e intanto uno della polizia politica ferma anche quello con i guanti che continuava a promettermi di tutto stringendomi la faccia e sbattendomi la testa.
«Vi stiamo trasferendo in carcere. Ora vedi quello che ti succede».
Pur sapendo che non avrebbero potuto arrestarci cominciavamo a preoccuparci ed alle nostre richieste di parlare con un avvocato ci rispondevano con un ‘dopo’ sarcastico, accompagnato dai soliti schiaffi. E poi sanno picchiare questi bastardi! Non lasciano grandi segni. Solo qualche livido che d’altronde uscirà troppo tardi anche per farsi refertare ad un pronto soccorso. Ma quello che mi fa più male sono quelle parole, quelle frasi, una rabbia indescrivibile e un’impotenza snervante, lancinante, la coscienza di essere  forse più vulnerabile perché ti colpiscono e ti feriscono in un modo in cui non si può ferire un uomo.
Ci perquisiscono in maniera molto rapida, sommaria. Mi levano un opuscolo che ho in tasca. Continuano assurdamente a ripeterci che abbiamo lanciato sassi, bastoni, contro i blindati, contro di loro. Continuano a ripeterci che stanno per trasferirci in carcere. Sento un senso crescente di angoscia dentro di me. Penso che di lì a poco sarò separata dagli altri due compagni e sarò completamente sola con quei porci bastardi. Comincio a pensare che almeno lì smetteranno di picchiarmi, ma prima? Quello con i guanti continua e ad un certo punto un pugno fortissimo arriva nelle costole di uno dei compagni. Lui si piega. Gli si spezza il fiato. Ci dicono di passare in un’altra stanza. E’ grande. Sembra un cinema. Si schierano ai lati polizia politica e poliziotti. Ridono i bastardi. Ci fanno passare in mezzo. E’ l’ultima razione di calci, botte, sputi, insulti. Quel breve passaggio sembra non finire mai. Ogni volta ti spingono addosso agli altri. Siamo storditi. Non apriamo bocca. In questa sala, dove ci sono anche altri fermati, ci fanno sedere lontanissimi l’uno dall’altro. Ognuno da solo con intorno 4 o 5 della polizia politica. Ancora ci tempestano di domande, di insulti.
«Perché stavate al corteo? Potevate restare a casa, ma voi fate politica, lo sappiamo bene, e far politica fa male al cervello, oltre che alle ossa»; soprattutto qui, dove critica, analisi, dissenso, sono un puro e semplice reato. Cerchiamo di non guardarli, cerco di non guardarli. Schifosi.
Il tempo non passa mai, è eterno. Ci dicono che loro sono al corrente di tutto, inutile negare quindi, qualsiasi cosa. E ancora silenzio, rabbia…vero, falso, non c’è più alcun confine, alcun limite appunto, il puro e semplice arbitrio, quello sempre impunito di chi detiene anche solo briciole di potere, o meglio di chi è semplicemente servo, braccio armato del potere.
Improvvisamente ci chiamano su una specie di palco che sta nella sala. Ci sono persone che battono a macchina, scrivono verbali; ci fanno leggere frettolosamente un foglio: è assurdo, ridicolo ‘i suddetti sono stati fermati dopo la nota manifestazione – c’è scritto – nulla è stato trovato a loro carico e perciò vengono rilasciati’. È il colmo. Ci dicono di firmare questo verbale di accompagnamento, altrimenti aspetteremo l’avvocato. Posso immaginare l’attesa. L’avvocato non cambierebbe nulla. Non servirebbe a contestare accuse che ovviamente non sono neanche formulate perché inesistenti. Ancor meno servirebbe per chiedere delucidazioni che puntualmente e ovviamente non arriverebbero, su quelle due ore allucinanti passate al commissariato. Non servirebbe a rimuovere quella rabbia, quell’odio e quella mia dignità che sento offesa, ferita, calpestata. Vi odio bastardi. Firmiamo. Ci accompagnano fuori gli stessi quattro che ci hanno fermati. Ora ridono, fanno battute idiote. Ci fermano sulla porta. Il commiato.
«Sono un fascista – dice  uno di loro – e quando ci date dei gladiatori, voi pensate di offenderci, ma per noi è un vero onore (Gladio era una struttura dei servizi segreti deviati negli anni ’90 n.d.a.)». Il fondo dello schifo. Guardo l’ora. Sono passate solo due ore e mezza, a me è sembrata un’eternità. Mi guardo intorno. Siamo di nuovo circondati da estranei che non sanno e non vogliono sapere, non vogliono riflettere, prendere atto, coscienza e agire. Penso alla frase di una canzone: ‘più li conosci più li odi’. Esprime il nostro stato d’animo, il mio, di allora come di adesso.”
Quando presentammo il libro all’università davanti a moltissime persone Silvia era felice. Andò via poco prima della fine dell’incontro.
«È stato il giorno più bello della mia vita», mi sussurrò nell’orecchio.
È morta qualche mese dopo. Una morte improvvisa. Non ho mai capito esattamente la causa. Di sicuro le ore passate nel commissariato non le avevano fatto bene. Il suo desiderio di cambiare il mondo era stato aggredito dalla brutalità degli uomini. Dalla falsità delle istituzioni. Ma in qualche modo e senza saperlo, aveva fatto la storia.

           Silvia Bernardini e Carmelo Albanese

2 commenti:

  1. p riduci il carattere del racconto!

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  2. E' un po' forte - specie nella terminologia - anche se è la tragica cronaca di un evento deprecabile. Ma al di là di questo - de gustibus ... - forse è un po' troppo lungo. Comunque è bella la pluralità degli argomenti di questo blog: si passa dal faceto (Sòra Camilla) al tenero (la nonna sine qua non) per finire alla cruda realtà di quest'ultimo racconto.

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