Se desideri pubblicare il tuo racconto su una donna di Roma lo puoi scrivere come commento a un post esistente, oppure inviarlo con una EMAIL (clicca qui) a Paola Staccioli, specificando il tuo nome (e se vuoi che sia reso pubblico), il titolo o il nome della donna. Il racconto sarà pubblicato in un nuovo post dagli amministratori del blog.

mercoledì 5 dicembre 2012

Giovedì 13 dicembre ore 18.30
Donne di Roma. Madri, regine, artiste, eroine, streghe, ribelli.
Narrazione di e con Paola Staccioli. Immagini: Marco di Renzo.
A Lignarius, via Mecenate, 35.
Testi tratti dal libro 101 donne che hanno fatto grande Roma.

Mia madre

Mia madre era nata a Riace. Si chiamava Cosimina e prima che essa nascesse le morì il padre, mio nonno Luigi Carnà. Pochi anni dopo, mia madre aveva due o tre anni, le morì anche la madre, mia nonna Elisabetta Tornese.

Mia madre aveva una sorella poco più grande che si chiamava Maria Rosa. Le sorelle avevano caratteri molto diversi tra loro. Ribelle e autoritaria e non sottostava a nessuno mia madre. Remissiva e accondiscendente mia zia. Il destino le separò e benché si siano sempre volute bene, ben poche volte si sono fatte compagnia.

Mia zia visse a Riace con dei parenti e ben poco so di lei prima di conoscere lo zio, suo futuro  marito. Mia madre andò a vivere a Stilo a casa del notaio della cittadina, parente dei genitori delle due sorelle non so di quale grado. Di quel ramo da ragazzo a Roma ho conosciuto Donna Fanny poco prima che morisse. La casa era una reggia. Mia madre viveva da regina riverita dagli abitanti del paese, visto il grado del suo tutore.

Mia madre mi raccontò che aveva un gatto che aveva addestrato a ritornare a casa quando lo allontanava. I gatti a quel tempo avevano un certo valore. Ebbene lei lo vendeva e il gatto ritornava regolarmente a casa. Mi disse che lo vendette molte volte.

Raggiunta la maggiore età, ventuno anni, nel millenovecentotrentacinque, il notaio la diede in sposa a mio padre Salvatore Meli di Stilo, anche per liberarsi di lei, carattere irrequieto. Li mandò a vivere a Roma e trovò un lavoro a mio padre per vivere con decoro. Purtroppo quello stesso anno fallì il Banco di Reggio Calabria dove mia madre aveva i suoi risparmi lasciati in eredità dai genitori e, quindi, perse tutto.

Quando mia madre partì per Roma fece atto di rinuncia alla casa, che possedevano lei e la sorella Riace, in favore di quest’ultima perché il suo futuro marito, detto come soprannome il ceraro, voleva in dote la casa. Comunque mio zio, anche con la distanza che li separava e secondo le sue disponibilità, ha sempre aiutato l’irrequieta cognata con cose e ospitalità. Infatti, diceva spesso che la casa era sempre aperta per mia madre e la sua discendenza.

Mia madre perse i primi due figli gemelli, nati morti a causa di una caduta rovinosa a Piazza Vittorio. Il terzo lo perse quando aveva tre mesi: nacque con il labbro leporino e privo di parte del palato. Infatti, durante la gravidanza una lucertola gli era caduta nel petto e lo spavento gli aveva procurato un arresto di sangue con il conseguente problema al bambino. I medici non erano riusciti a salvarlo. Si chiamava Maurizio. La quarta, Rosaria, bellissima a detta di mia madre, morì a otto mesi circa. Mio padre, imprudente, la portò fuori casa con un vestito leggero: faceva freddo, si ammalò, prese la broncopolmonite e non si riprese più. Poi nacqui io, che mi chiamo Luigi in ricordo di mio nonno. Infine, mio fratello Luciano, vivente.

Dopo la nascita dell’ultimogenito, mia madre cominciò ad avere dissapori con mio padre. Gli diceva che non aveva voglia di lavorare e mio padre rispondeva che non andava d’accordo con i datori di lavoro. A quel tempo mia madre lavorava alla Buitoni. Anni dopo decise di separarsi da mio padre. Si presentarono davanti al giudice nel palazzaccio. Si separarono e all’uscita dal tribunale mia madre ci mise, a me e mio fratello, sugli gradini della scalinata e ci disse di non muoverci. Si allontanò da noi e si nascose in un angolo. Voleva vedere la reazione di mio padre alla nostra vista, una volta uscito. Disse mia madre poi che egli ci guardò, si girò dall’altra parte e si allontanò. Mia madre ci riprese e noi siamo stati sempre con lei. Mio padre non l’abbiamo più rivisto.

Dieci dopo la morte di mio padre, avvenuta nel millenovecentottantuno, sono venuto a sapere da una delle sue sorelle dove era sepolto. Ho fatto riesumare le sue ossa e ora riposano in pace in un loculo a Primaporta. Ho avuto una piccola eredità lasciata da un’altra sorella di mio padre morta vedova e senza figli. Mi ha cercato mia cugina appunto per dividere l’eredità.

Dopo il periodo con la Buitoni, di cui conservo una fotografia con tutte le maestranze donne compresa mia madre con in mezzo il titolare, andò a lavorare alla Fulgida. In tempo di guerra fece la bigliettaia sui tram. Fece anche altri lavori per mantenerci, ma non ricordo quali.

Dopo la guerra lavorò per la CRI andando in giro per Roma su un carro trainato da cavalli con sopra un grosso salvadanaio. Poi iniziò a lavorare stagionalmente ai Mercati Generali con una certa assiduità come capatrice di frutta. Mio zio si informava anno per anno in quale baracca lavorasse perché in uno dei vagoni carico di aranci che arrivavano dalla Calabria e destinato proprio ai mercati egli vi caricava un pacco di viveri che mia madre ritirava all’arrivo del vagone. Tra le sue attività, mio zio era anche sensale, ossia valutava la quantità di arance su di un albero e metteva d’accordo contadino e grossista.

Finita la stagione di lavoro, oltre al normale salario, mia madre reclamava al titolare della baracca il versamento dei contributi che non avvenivano mai.

Si rivolgeva ai sindacati che si presentavano alla baracca e ne uscivano con una cassetta di frutta e i contributi regolarmente non venivano versati. L’anno successivo, all’inizio della nuova stagione, tornava a lavorare magari alla stessa baracca che aveva denunciato.

Tutto è avvenuto nell’arco di tempo di circa quarant’anni.

Nel millenovecentoquarantotto mia madre fu colta da un attacco di ulcera perforante allo stomaco. Portata con urgenza all’ospedale, fu operata dal professor Valdoni. Mi raccontò mia madre che durante l’operazione il professore le parlava in continuazione poiché lei era sveglia poteva rispondere alle domande: infatti, le avevano fatto per anestesia la puntura lombare. Guarì completamente dall’ulcera, ma soffrì per molti anni ancora a causa dell’anestesia. L’ulcera è una malattia ereditaria di forma benigna. Mio fratello fu operato anch’egli per ulcera perforante allo stomaco a vent’anni di età e accorsero, da me trovati, sedici donatori di sangue, me compreso. Io stesso fui colpito da ulcera duodenale a quarantatre anni e sono stato curato con medicinali. Molti anni dopo l’ulcera mi andò in stenosi, cioè il cibo non passava, e sono stato nutrito per ventisei giorni con flebo in attesa di essere operato. Mi diedero del thè, poi delle minestrine e alla fine il cibo cominciò a ripercorrere il giusto tragitto. Non fui più operato. Ora prendo un medicinale specifico ad ogni cambio di stagione. Mia zia, il figlio e la figlia hanno tutti sofferto di ulcera.

Mia madre molto dinamica, sui settant’anni, trovò lavoro come baby sitter a casa di un alto funzionario dell’Inps in pensione che aveva una moglie molto giovane e due figli piccoli. Lei li doveva custodire e seguire la famiglia anche in altre città. Una di queste fu Venezia. In seguito, gli raccontò la sua situazione pensionistica: aveva lavorato una vita, ma aveva pochi contributi versati. Il funzionario prese a cuore la sua storia, le disse di fare determinati documenti e gli diede appuntamento nella sede dell’Inps a Via dell’Amba Aradam. Pochissimo tempo dopo le fu assegnata una pensione.
Negli ultimi tempi della sua vita, voleva sapere notizie sui suoi genitori. Le chiese a mio zio, ma egli non ha mai voluto dire niente. O non sapeva o non voleva dire. Si rivolse ad un parente non so di quale grado, il presidente della Corte dei Conti Condemi, ma egli non seppe dirle nulla. Mio zio morì e fu sepolto a Riace. Mia zia morì qualche anno dopo e fu sepolta a Cerasole d’Alba. Mia madre passò gli ultimi anni col desiderio di tornare a Riace e cercare nell’archivio del comune le sue origini. Morì serenamente a circa novant’anni ed ora riposa al cimitero di Primaporta in un fornetto che si era comprata.

di Luigi Meli

martedì 11 settembre 2012

Venanza Spuntarelli, una vita a servizio

Una volta, non tanto tempo fa, i lavori adesso appannaggio di immigrati da paesi lontani erano svolti dalle ragazze delle regioni più povere d’Italia che venivano a lavorare nelle famiglie borghesi di Roma. Venivano dalla lontana Sicilia o dalla Sardegna, con viaggi che negli anni ’50 e ’60 del 1900 dovevano sembrare lunghissimi. O dalla campagna in corso di spopolamento di regioni vicine, per cercare di “campare la vita” in città. Molte ragazze venivano dalle montagne dell’Abruzzo. Venanza invece era marchigiana. Come si usava allora il fratello maschio aveva ereditato le terre e un lavoro spesso faticoso e marginale, mentre la figlia femmina emigrava.
Venanza era grossa, rubiconda. Come una matrioska russa era rossa in viso con l’eterna "parainnanzi" legata a fare da cintura sopra la gonna. Le ciabatte sformate che ancora porta qualche rara vecchia comare trasteverina.

Era arrivata a casa nostra da Visso insieme alla sua lingua un po’ rozza, a un'ignoranza saggia non guastata dai tre anni passati in una scuola elementare che immaginavo ai lati di una strada bianca con un cancelletto verde. La luna per lei era popolata dai fantasmi di Caino e Abele. Il sole continuava tranquillo a girare intorno alla terra, quattro secoli dopo Galileo. Parlava per proverbi. Se un giorno noi bambini eravamo agitati avevamo sicuramente “mangiato gli zompi”. Lasciare qualcosa nel piatto era un sacrilegio perché “è meglio che il corpo crepi che la robba se sprechi”. Il pane secco veniva riciclato per le cotolette della domenica. L’olio fritto era filtrato e riutilizzato ad oltranza. Persino il grasso del pollo arrosto veniva conservato e fatto affiorare in frigorifero per cucinare certe frittate di patate, certo non dietetiche ma piene di sapori antichi. Sapeva però distinguere ad intuito il buono dal cattivo, Il giusto dall’ingiustizia. E mal sopportava i capricci dei “suoi bambini” troppo viziati, che sgridava e puniva senza chiedere il permesso a nessuno.

Occupava una stanzetta cieca, larga poco più del suo letto, che dava su un bagno di servizio dove aleggiava sempre un odore fatto di sapone da bucato e di vestiti sporchi, di vecchie scarpe e stracci bagnati. Su una sedia le sue riviste preferite. L’ultimo numero di Grand’Hotel, un fotoromanzo in bianco e nero. Sopra, a coprire queste letture peccaminose la vecchia edizione nera e rossa dei Vangeli. Il pomeriggio, se rimanevo solo a casa, mi toccava accompagnarla a far visita al portiere in guardiola oppure seguirla in chiesa, per la novena di maggio o la via crucis pasquale. Metteva allora una gonna più scura e si copriva il capo con un fazzoletto ricamato. Lo stesso vestito lo indossava il giovedì e la domenica pomeriggio per le sue ore di libertà o per le visite ai parenti.

Trent’anni vissuti così senza lasciare la nostra casa. Solo quindici giorni di vacanza l’anno a "fare i lavori" nella casa del fratello. Vivendo solo per noi.  Un giorno scoprì di essere malata. Un tumore all’intestino. Che accettò con la pazienza e la rassegnazione con la quale un tempo si accettavano tutte le disgrazie della vita, come la morte. Dopo qualche mese però tornò guarita. Ma ormai era diventata un peso e se ne dovette andare. La andai a trovare una volta nella sua campagna. Ormai era stanca e come inselvatichita. In mio onore uccise un povero piccione e lo cucinò. Ricorderò per sempre quel piccione.

Marco Di Renzo

lunedì 10 settembre 2012

Tanaquilla, la regina che regnò due volte - VII secolo a.c.

Non ebbe tanta fama nella letteratura, fu vista come un personaggio oscuro.

Tito Livio nel suo “Ab Urbe Condita” ci racconta che era una donna etrusca, appartenente ad una famiglia aristocratica di Tarquinia. Lì conobbe Lucumune, figlio di Demarato, originario di Corinto. Alla morte del padre, Lucumone ereditò tutto il patrimonio, ma essendo straniero, veniva trattato con diffidenza, tenuto lontano dal potere.

Si innamorò di Tanaquilla. E lei di lui. Con la decisione di dirigersi verso la giovane Roma, si accende la speranza che lì le porte potrebbero aprirsi.

Sempre Livio ci racconta il viaggio, attraverso i monti ed il lago di Bolsena. Poi seguendo la costa laziale, risalirono il Tevere, fino alla città allora governata da Anco Marzio. Un’aquila, nei pressi del Gianicolo, porta via il cappello dell’uomo, poi lo rimette al suo posto: è il segnale dal cielo, l’auspicio favorevole.

Lucumone, giunto a Roma, cambia il suo nome in Lucio Tarquinio Prisco. Con l’aiuto della moglie emerge in ogni campo sociale: militare e civile. Diventa notissimo in tutta l’Urbe. È sempre Tanaquilla a consigliarlo nelle decisioni, a guidarlo.

Anco Marzio muore, Prisco fa una convincente campagna elettorale e vince. Diventa il quinto re di Roma!

Sotto il suo regno Roma cresce, è una città piena di vita, sono celebrati giochi. Ma lui si fida solo della moglie, la quale vive nell’ombra. Lei pensa al loro futuro. Una nobildonna sua amica ha un figlio: Servio Tullio. Quest’ultimo sposa una delle figlie del re. I figli di Anco Marzio comprendono il pericolo di rimanere fuori dai giochi e uccidono il re Tarquinio.

Ma Tanaquilla nasconde la morte del marito e gli fa dire che ha nominato reggente ad interim di Roma il genero Servio Tullio: è il primo caso a Roma di un re nominato dal suo predecessore.

In realtà, Tanaquilla diventa regina per la seconda volta e scompare nuovamente dalla scena. Ma continua la sua attività di consigliera. Negli anni a seguire le sue reliquie, un mantello  confezionato per il marito - e un ferma capelli sono oggetto di venerazione nel tempio della dea Fortuna.
Giovenale la definisce fredda, strega e cospiratrice. Però, forse, le fortune future di Roma dipenderanno proprio dalle sue azioni e dai suoi consigli.

M. R.

lunedì 3 settembre 2012

Ersilia, la moglie del re

Lei, sabina, era la moglie di Osto Ostilio, un romano, amico di Romolo.
Quel 21 agosto di circa 2750 anni fa si era nel pieno dei festeggiamenti dei Consualia, in onore del dio Consus.
Ad un cenno del re, i Romani strapparono ai Sabini - giunti per l'occasione - le loro donne. Nel trambusto generale, Romolo ebbe proprio lei: Ersilia. Anche se per errore. Era una donna che non si risparmiava per gli altri, anzi durante il ratto tentò di proteggere le ragazze.

Nei mesi successivi i Sabini si organizzarono, comandati dal loro re Tito Tazio. Nel frattempo si celebravano i matrimoni tra Sabine e Romani. Nacquero i figli di queste unioni.

Venne il giorno in cui Tazio con i suoi guerrieri attaccò i Romani. Voleva riprendersi le figlie del suo popolo, strappate a loro brutalmente. Ebbe inizio la battaglia con alterne fortune. Ma lei aveva il suo piano: con tutte le altre donne si precipitò nel campo ove infuriavano gli scontri tra i due eserciti, il futuro Foro Romano.
Con le sue grida:
"uccidete noi, non vogliamo piangere i nostri mariti ed i nostri padri. I Sabini ed i Romani, ormai, sono un unico popolo!"
le donne si interposero tra i duellanti, fermarono il conflitto fratricida.

Avvenne ciò che lei auspicava: Romani i mariti, Sabini i padri, uniti fra loro.
La prima guerra romana era terminata e nel migliore dei modi. Il tempo passò, Romolo ascese in cielo, ma più probabilmente fu ucciso dai suoi stessi senatori che temevano il suo eccessivo autoritarismo. Gli fu eretto un tempio sul Quirinale, il suo nome mutò in dio Quirino.

Lei rimase sola e con il suo pianto impietosì Giunone, la quale le mandò Iride, la dea dell'arcobaleno. Fu accontentata: con il bagliore di una stella raggiunse il suo sposo.

Così Ersilia/Hora fu per l'eternità la sposa di Romolo/Quirino.

E. L.

mercoledì 1 agosto 2012

La baby sitter tedesca

Anny 1895 - 1969

Siamo alla fine degli anni '50, una "signorina" di circa 65 anni viene a vivere nella casa dei miei genitori. E' tedesca, parla un buon Italiano con un forte accento nordico.

Occupa una bella stanza, mi ricordo il suo lettone sopraelevato, lo stanzino pieno delle sue cose.
Quando nacqui - lei non aveva figli - subito mi prese a ben volere ... mi chiamava "Il suo amore". Me la ricordo da sempre assieme ai tanti flash della mia infanzia: durante le feste metteva in bella mostra le statuine in ceramica di Biancaneve con i sette nani, una volta acquistò una coppia di galletti che lasciava scorrazzare per la sua stanza facendomi divertire un mondo.

Mia madre si dovette assentare per un lungo periodo - circa un anno; lei mi ... adottò (in un certo senso), avevo meno di quattro anni. Ogni giorno si inventava qualcosa per me: mettere in fila i tappi della birra - una volta in fila per tre, una volta in fila per quattro ... -, imparare canzoncine in tedesco che poi cantavamo insieme, insegnarmi a cucinare. E ogni sera mi regalava una caramella - me lo ricordo ancora: si chiamavano "lacrime d'amore" - poi ... dentifricio, pigiama e ... a letto, subito dopo Carosello.

Crebbi, le chiedevo perchè non si era sposata, mi raccontò del suo unico grande amore per un pugile; una volta mi fece vedere una fotografia dove il suo "fusto" l'abbracciava, con tanto di dedica ed autografo.
Crebbi, le raccontavo dei miei amori di bambino, lei mi accarezzava come una madre ... sì era una seconda madre. Le promisi che "da grande" l'avrei riportata nel suo Paese con una spyder rossa.

Mi amò da sempre per sempre.

Manrico Clarezo

mercoledì 18 luglio 2012

La compagna di ... classe

Frequentavamo la stessa classe del liceo, per cinque anni insieme, quasi ignorandoci. Poi la maturità e la preparazione per la prova di matematica assieme ad altri nostri compagni. Passavamo i pomeriggi tra uno studio di funzione e un integrale, ma scherzavamo e cominciammo a farci le nostre confidenze.

Lei si innamorò d'un mio amico ed avemmo così la possibilità di passare tante serate in compagnia, non perdendo occasione per parlarci. Il suo amore finì e per trent'anni ci perdemmo di vista. Trent'anni in cui accaddero tante cose.

Poi, per un puro caso, ci rivedemmo assieme a quella classe ormai di cinquantenni. Rinacquero i rapporti così a lungo interrotti. Riprendemmo i nostri discorsi così come allora li lasciammo, con la stessa confidenza, come se tutti quei decenni non fossero mai passati.

Mi colpì il suo spirito immutato, la sua generosità. Condividemmo tutto: la nostra passione per la storia, le nostre paturnie, la nostra voglia di raccontarci. Ha lottato una vita per difendere i suoi ideali, pagando prezzi esagerati. Mille volte è caduta ed altrettante è riuscita a rialzare la testa. La perdita dei nostri padri, la dolcezza e la dedizione con cui si prende cura della madre, offesa dall'inclemenza delle cose della vita.

Adesso ci incontriamo spesso, ci scriviamo dieci volte al giorno. Mi coinvolge nelle sue mille cose: le ricerche per un suo nuovo libro, la preparazione di una conferenza per la sua associazione culturale, la riparazione dello sciacquone del bagno di casa sua ... E non ha perso il suo entusiasmo da ragazzina con ancora tutta la vita davanti.

Grazie Paola!      

di Marco Ricalzone

lunedì 16 luglio 2012

La bimba di Anzio

1° ottobre 1958 - 30 agosto 1972

La conobbi da sempre, abitava nel palazzo ove ero nato. Cicciottella, capelli neri e lisci, un visino d'angelo. Aveva la mia età. Giocavamo insieme quando i genitori ce lo consentivano. Andavamo nella stessa scuola, ma eravamo in sezioni differenti - allora erano rare e malviste le classi "miste".


L'estate la passavamo insieme ad Anzio; una sua zia aveva una pizzeria al taglio e ci ospitava nella sua bella casa. Dormivamo insieme le notti d'estate ... ma anziché riposare, passavamo ore e ore a parlarci, a raccontarci di noi. Ridevamo commentando le cose buffe che ci capitavano, parlavamo di quanto i nostri genitori erano amici, prendevamo in giro i nostri fratelli maggiori.


Il Natale era una festa: aspettavamo l'arrivo di Babbo Natale e ogni volta giocavamo per scoprire chi fosse in realtà: mio padre o il suo? E poi, io giocavo con le sue bambole, lei con i miei trenini. Tutto era condivisione, gioco, ironia.

Arrivarono le scuole medie, nacquero discorsi diversi tra noi due ... I genitori ci osservavano - lo scoprii più tardi - e con la massima discrezione evitavano di farci dormire insieme ... però mi ricordo i baci che ci davamo di nascosto e le carezze. Le frasi carine. La complicità. Le risate.

Poi l'inverno gelido della fine d'una estate di quarant'anni fa. Finì tra le mie braccia; sua madre me la lasciò baciare per l'ultima volta.

(Marco Ricalzone)

mercoledì 15 febbraio 2012

Donata Di Maulo... una Donna (mia nonna)

Casaline di Preturo (AQ) 24/3/1895 - Roma 29/11/1994

Donata nasce in una famiglia contadina in una minuscola frazione di abituri sperduta tra i monti d'Abruzzo: prima figlia femmina di dodici fratelli, di cui però soltanto cinque sopravvivranno all'infanzia... anche lei di salute piuttosto cagionevole, si ammala spesso e più volte sembra sul punto di non farcela... ottiene però la licenza di terza elementare meritando una medaglia d'oro per l'ottimo profitto dimostrato... purtroppo non le sarà consentito proseguire oltre gli studi: la scuola più vicina si trova all'Aquila e non esistono collegamenti di sorta. Di costituzione esile e delicata si dimostra poco adatta a svolgere quelle mansioni che nella realtà contadina vengono all'epoca riservate alle donne: anche portare sulla testa la pentola con il pasto caldo per i braccianti risulta per lei una fatica insopportabile. Le vengono pertanto affidati i lavori di casa, la tutela dei fratelli minori e la gestione della tabaccheria di famiglia, una delle poche bottegucce dell'abitato. Per le compaesane, per lo più analfabete, diventa presto un punto di riferimento importante: tutte si rivolgono a lei per comunicare per iscritto con i figli, i fidanzati o i mariti immigrati oltreoceano, più tardi anche con tutti gli uomini impegnati sul fronte della Grande Guerra. Di tutte diventa la confidente fidata e conosce gli amorosi tormenti mentre lei, in quell'ambiente rozzo e ristretto, stenta a trovare un compagno adeguato. Infine, già ventisettenne, sposerà il bel Luigi, che insieme ai fratelli minori ha impiantato una delle tante imprese di costruzioni che nei primi decenni del Novecento stanno erigendo Roma Capitale... i novelli sposi si trasferiscono a Roma in una casetta di Città Giardino, a Montesacro, dove mio nonno, uomo di poca cultura ma di modi gentili e ancor più nobili intenti, fantastica la costruzione di quartieri operai dotati di servizi e conforti alla stregua dei dettami dei Socialisti Utopisti. Ma il loro idillio avrà vita breve: un attacco di peritonite non diagnosticata metterà prematuramente fine alla vita di Luigi; mio padre figlio primogenito e unico, ha appena sei mesi. Segue un tristissimo periodo in cui Donata si vede costretta a convivere con i cognati e con il suocero in un casolare di tipo rurale ai margini della periferia romana, sono anni terribili in cui lei, venuta a perdere la fonte di sostentamento diretto, svolge la vera e propria funzione di massaia, prendendosi cura di uomini e animali e assicurando così la mera sopravvivenza a se stessa e al figlioletto. All'età di sei anni mio padre, giocando con un residuato bellico inesploso, dissotterrato nei pressi del casolare, perde la mano e parte dell'avambraccio sinistro... l'incidente segnerà la fine del periodo romano. Donata è determinata a cercarsi un lavoro autonomo, solo così potrà evadere dal pesante giogo familiare e assicurare un'istruzione adeguata al figlio, ormai tagliato fuori per la sua invalidità dallo svolgimento di qualsiasi attività di tipo manuale. Attraverso i Patronati dell'Opera maternità e infanzia che gestiscono Istituti di accoglienza e istruzione per orfani troverà una prima occupazione come cuoca a Morolo poi, avendo qui ricevuto trattamenti lavorativi prossimi allo schiavismo, riparerà in una Istituzione analoga ad Arpino. Dai cognati, intanto, le è stata negata la liquidazione richiesta per le spettanze dell'erede minore; contro di essi Donata intenterà una annosissima causa legale che si concluderà in termini per lei moralmente tanto deludenti da voler rifiutare completamente la pur cospicua somma che infine le sarà riconosciuta. Ad Arpino comincia un'esistenza più serena in un'ambiente più aperto e vitale, lei non si fa abbattere dalla durezza del lavoro, fa fruttare al meglio le scarse derrate alimentari a sua disposizione, spesso compie miracoli in cucina. Allo scoppio della seconda guerra mondiale però l'Istituto chiude i battenti ma Donata ancora una volta non si perde d'animo: rileva brande e suppellettili, prende in affitto una grande casa dove allestisce una spartana pensione per studenti: Arpino è cittadina che vanta un gran numero di Istituti scolastici di ogni ordine e grado, è sede di un Convitto Nazionale che è un polo di attrazione per l'intera Ciociaria e parte della Campania, non tutti però trovano posto come Convittori e sono ammessi a frequentare l'annesso Liceo Tulliano soltanto come studenti esterni... I ragazzi pertanto cercano alloggio in paese e vengono accolti in una severa ma attenta atmosfera familiare. Donata in qualità di vice mamma si occupa sovente anche dei colloqui con gli insegnanti: vigila, consiglia, media, contratta, aiuta, cura, cucina, rassetta e racconta... La durezza del periodo bellico è meno pesante per i civili di provincia... i rari episodi in cui si viene convolti in prima persona, per principio di sopravvivenza, non si vollero mai raccontare, si preferì osservare il silenzio. Mio padre intanto ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso la Sapienza di Roma e si è fidanzato con un'Arpinate, anch'essa laureata e già lavoratrice. Nel dopoguerra convulso e confuso mio padre compie qualche tentativo di pratica avvocatizia, studia per sostenere l'esame da Procuratore, infine, con qualche ritardo, abbandona l'idea della libera professione per ripiegare su un lavoro dipendente nel parastato. La sede in primo momento è Parma, poi già da sposato, arriverà il trasferimento richiesto: si torna a Roma. E' il 1957. La casa di Arpino sarà riconsegnata al proprietario, io sto per nascere, da ora in poi nonna abiterà con noi e con noi resterà fino alla fine dei suoi giorni. Accudirà i suoi nipoti, io e il mio fratello Luigi... sarà lei, nel nostro particolare assetto, il vero capofamiglia... prima e dopo la morte precoce di mia madre - lavoratrice da sempre - sarà comunque lei che si assumerà anche tutte le mansioni tradizionalmente assegnate ad una mamma. Donata vigila, consiglia, media, contratta, accompagna, aiuta, cura, cucina, rassetta e racconta... Anche negli ultimi tredici anni vissuti nell'invalidità parziale per i postumi di un ictus conserverà lucidità mentale e la maggior parte di queste mansioni. Nonostante i cicli generazionali notevolmente dilatati nel tempo avrà la soddisfazione di stringere tra le braccia mio figlio e anche a lui di narrare le sue fole. Quasi centenaria morirà nel suo letto, come aveva sempre desiderato, lasciandomi la straziante e insieme dolcissima incombenza di pettinarle per l'ultima volta la sua lunga treccia che mai aveva voluto tagliare.

di Rosamaria Francucci

martedì 10 gennaio 2012

Il ritorno

Nuclei di acciaio, uomini di ferro?A volte mi sembra più difficile essere di carne e di sangue
da “Pensieri spettinati” di Stanislaw LEC -editore Sonzogno

…da un lato il compagno sviluppa al massimo i valori pratici di solidarietà, eguaglianza, resistenza all’oppressione, allo sfruttamento che costituiscono l’orizzonte concreto del superamento dell’atomismo individualistico e dell’egoismo capitalistico, prefigurando così l’unico possibile comunismo. Dall’altro il militante filtra questi valori in forma organizzativa di tipo inevitabilmente ecclesiastica e militare, in cui la fedeltà è più importante della libertà di pensiero. La dedizione alla causa conta più della coscienza critica. La testimonianza quotidiana della propria fede pubblicamente (od intrinsecamente-ndr) dichiarata, pesa molto di più della capacità d’innovazione pratica e teorica…il nesso (indissolubile-ndr) militante-compagno…ha connotato storicamente l’esistenza concreta della figura antropologica centrale del comunista storico novecentesco…
da “Il tempo della ricerca” di Costanzo Preve –Vangelista ed. Milano 1993

R ampa Brancaleone. Una scalcinata scalinata settecentesca vicino San Pietro, che salendo porta ad uno spiazzo con quattro palazzoni popolari, dalle finestre grandi e con l’intonaco che cade a pezzi. Salnitro ed erbacce tra il marmo consumato dei grandi scalini dove ci si può sedere, come su un sedile. La strada sottostante è Via delle Fornaci. I palazzi si stagliano contro il cielo di Roma e guardano la cupola di San Pietro: il Cuppolone. Dice così, familiarmente, con affetto e con due P, il popolino romano. Edifici di quattro piani, come naufraghi in un mare di benessere ostentato e pacchiano, contraddistinto dall’edilizia volgare, ma soprattutto brutta, dei bottegai e speculatori (i ripuliti nel gergo romano) miracolati dall’economia degli anni ’60. Uniche abitazioni sopravvissute delle molte in cui quelli che popolavano allora la zona si buttavano a dormire esausti, dopo 16 o 18 ore di lavoro ( se di lavoro si può decentemente parlare)i fornaciari, tra cui molti erano i bambini e le bambine che non arrivavano ai 10 anni, che nei forni sempre accesi, come l’Inferno, delle vicine fornaci (ora diventate, per lo più, residence di lusso e Centri Commerciali) impastavano ed infornavano mattoni e tegole e ne ricevevano in cambio sopravvivenza stentata, silicosi e figli da avviare ad un destino segnato ed immutabile. Tanta fatica e stenti per appena rimanere in vita. Laterizi per il vicino Vaticano, le cui statue di santi ed i marmi pregiati delle chiese e dei palazzi curiali e cardinalizi ignoravano di quanta fatica, miseria e sofferenza fossero impastati i manufatti che li preservavano dalla pioggia, e del resto a voltare la faccia di là non erano certo i soli. Ignoravano anche i pii ed abituali frequentatori, zelanti di messe, vespri e novene, solerti di ogni rosario e qualsivoglia funzione in cui si celebrasse la bontà del Creatore. Mattoni e tegole anche per il prospiciente quartiere chiamato Cavalleggeri, causa l’acquartieramento di uno squadrone di cavalleggeri, verso i fornaciari vere e proprie carogne e persecutori. Ahimè un male necessario che, del resto, la miseria a volte non è rispettosa dell’ordinato vivere, diventa talvolta irragionevole, è portata ad esagerare e si lamenta troppo, anche astiosamente, e va rimessa al suo posto, quando è il caso.

Gendarmi a cavallo ed operai. Controllori e controllati: una coppia inscindibile nella Roma papalina del Papa Re dapprima ed in quella piemontese del Re Buono poi. Un lavoro bestiale per tutti e due: fornaciari e gendarmi a cavallo. Eseguito con un sovrappiù da carogne senza scrupoli quello delle guardie a cavallo, forse per il timore di cadere nella prospiciente vita di stenti, stracci e fornaci che periodicamente loro bastonavano.

Marisa mi viene incontro scendendo gli scaloni della scalinata. Corti ricci rossi. Occhi azzurrissimi in cui potrei annegare e gli orecchini che le ho regalato io. Ed il suo sorriso che mi fa stare bene. Subito. Mi guarisce il mal di vivere solo a guardarla. La gonna severa ed il tailleur grigio. Significa che va a dare una lezione di pianoforte. Le sue labbra morbide ed il profumo di patchouli. La pressione dolce del seno nell’abbraccio. E…sto bene. Non sento più la stanchezza del turno di notte nell’albergo a cinque stelle dei Parioli. Commesso addetto al maneggio dei soldi italiani ed esteri, recita pomposamente la mia qualifica. In realtà contribuisco a taglieggiare i turisti, con un cambio che…lasciamo perdere! Indirizzandoli poi a tassisti, negozi di moda e ristoranti di lusso che finiscono di spogliarli, completando il lavoro. Ci siamo conosciuti durante un torneo di scacchi organizzato da un Circolo Culturale di cui Marisa è co-fondatrice. Lei aveva degli occhialini severi su un fisico che non lo era. Tutti i maschi presenti le ronzavano intorno, facendole una corte educata ma serrata. Io, che ero venuto solo per giocare a scacchi, no. E’ stato questo che l’ha attratta. Come mi ha poi confidato. Ed allora decise di farmela lei, la corte. Così, per curiosità e dispetto. Io, appena la vidi, provai un conosciuto brivido freddo alla schiena. Il solito. Guai in arrivo. Però, posso dire, con legittima soddisfazione, che per uno come me che aveva giurato a se stesso di darsi cioè defilarsi, sempre. E di non farsi coinvolgere mai, perché, eccola! Una piccolo-borghese se ce ne è una! E per di più con una figlia adolescente ed imbronciata che pare stia lì lì per vomitarmi addosso, ed una madre con veletta (oddio! allora esistono ancora!) che mi guarda con indignazione, pronta a gridare allo stupro se mi avvicino di più alla figlia. O forse ritiene che ho esagerato con i salatini al tavolo del rinfresco? E naturalmente corredata da amiche scrutanti e con la puzza sotto il naso…ebbene ho resistito tanto. Quasi mezzo pomeriggio. Compreso il thè verde biologico. Lo detesto ma, eroicamente, l’ho sorbito. Tutto. Con un sorriso ebete stampato sul viso. A casa sua, dopo il Torneo. Dovevo invece allarmarmi, considerato che aveva spedito Perla, risponde a questo nome la disgustata dal mondo nonché sua figlia, dalla nonna con veletta. Eppure…è stato (lo è ogni giorno che passo con lei, ancora adesso mi viene voglia di cantare al solo guardare il suo spazzolino accanto al mio) bellissimo. E coinvolgente. Per me che fino ad allora vivevo in apnea. Ed in bianco e nero. Una esplosione di colori. Naturalmente un minuto dopo ha cominciato a ristrutturarmi. Dal come mi vesto: Tutti questi colori neri, anzi proprio incolore, da ipermercato, molto ordinario. Al fatto che :Non ti valorizzi come potresti. Troppo zitto e soprattutto anonimo. E pensare che per essere anonimo ci metto tanto impegno! Ed ancora: Sei così timido da rasentare l’arroganza. Tu guardi tutto, no carino, non dire no, a me non la fai. E non dici mai niente! Testuale. Mentre lei gira completamente nuda per casa. Il seno pesante e la curva dei fianchi. I miei occhi e le mie coronarie stanno facendo a gara a chi esplode per primo. Ogni tanto guardo la porta inquieto, ho paura di una irruzione di carabinieri aizzati dalla madre urlante ed indignata e dalla figlia ancora più ingrugnata! Ma lei è così solare e di una naturalezza elegante e disinvolta anche così: senza vestiti, che…ancora adesso trovo del tutto naturale che sia tanto corteggiata. Ma per me il suo fascino maggiore è che non si sogna neanche lontanamente di far politica. Le ho regalato la mia cosa più preziosa: un poster di Audrey Hepburn nel film Colazione da Tiffany. Originale. L’ho custodito gelosamente e miracolosamente in tutti questi anni. Mi ha chiesto, colpita: Perché? Ho risposto: Tanto ho l’originale in carne ed ossa!. Mi ha guardato e poi riguardato. Molto a lungo. E senza dire niente. Quello sguardo me lo conservo per i giorni più neri, gelosamente, dentro di me. E pensare che quando qualcuno mi guarda più a lungo, mi salta la mosca al naso!

Mi guarda anche adesso su questa scalinata inondata dal sole, nel centro di Roma:

Sorpresa! c’è un tuo amico torinese di passaggio da Roma che ti sta aspettando a casa. Sei contento amore mio solitario?Come? Da un po’! Certo, l’ho fatto accomodare in biblioteca, che in salotto…un disastro, Perla e le sue amiche…indescrivibile, non ho parole e tu che hai insistito per farle fare la festa a tutti i costi…quando ritorna da scuola facciamo i conti…che devo fare con voi due?...comunque il tuo amico, che persona fine e distinta! si è tanto scusato d’essere venuto senza preavviso, ma voleva tanto farti una sorpresa, una improvvisata. E’ tanto che non vi vedete mi ha detto,e non me ne stupisco, un po’ orso lo sei amore …certo che mi sono fidata, si vede subito che è un professore, anche se non me l’ha detto. Pensa abbiamo parlato di tecnica pianistica, di digitalizzazione dei tasti…sai cosa insegna? Per caso è un pianista anche lui? Le mani ce l’ha! con quelle dita lunghe e le unghie curate! Io per non sembrare indiscreta non l’ho chiesto. Gli ho servito solo un caffè. Non ha voluto altro. Nel caso: in frigo ci sono il resto dei pasticcini della festa ed i tramezzini, vedi tu…

Un brivido freddo nel centro della schiena! Ahi! Troppo bello per durare! Non ho amici professori, né reali o supposti, tanto meno torinesi. Anzi, non ho proprio degli amici. Ho scelto così. Solo conoscenti. Buongiorno e buonasera. Mi sono abituato al silenzio. Non potrei farne a meno. Un po’ l’abitudine alla sicurezza, un po’ la scelta: mi piace! E ne ho scoperto i vantaggi. E’ comodo. Non ti devi ricordare le parti che interpreti. Sono impallidito e ho paura che se ne accorga. Lei va di fretta ed è meno attenta del solito, per fortuna. Continua:
- Senti: la vai a prendere tu Perla a scuola? Lo sai che le fa tanto piacere. E ti chiama papà, lei lo sa che ti piace e che poi ti pavoneggi. A me…non mi chiama mamma da un pezzo, no non va bene, per niente, non mi piacciono queste mode di chiamare i genitori per nome. Io? devo andare, ho una allieva nuova, forse mi trattengo un po’ di più, per un thè e qualche chiacchiera, certo tengo in allenamento il mio inglese. E’ arrivata da poco a Roma…si è del solito giro diplomatico. Aspetta. Come dici tu? La cricca imperialista! Ma perché ce l’hai sempre con gli americani? Va bene: statunitensi, come dici tu, amore mio pignolo? Se c’è un popolo aperto alle novità! Un giorno me lo spiegherai? A proposito, non ti scordare. Il mio Yogurt naturale con i fermenti attivi sta nel pensile bianco, al lato del frigorifero. Devi levare il panno che lo copre e metterlo in frigo. Ma che spiritoso è l’amore mio oggi: certo lo Yogurt e non il panno! Non come l’altra volta che l’hai lasciato fuori ed è andato a male. E non sbuffare, farebbe tanto bene anche a te, come per esempio smettere di fumare. A proposito, Perla deve fare la versione di latino che le ha dato mamma, altrimenti questa volta le restituisce i soldini. Fai l’impopolare qualche volta anche tu, papà. E vedi che mentre studia non accenda la Tv o la radio, magari insieme, come è solita. Con quella orrenda musica tecno che da un po’ ascolta. Solo per farmi dispetto. Già tu le prendi sempre le parti. Da quando ha preso a chiamarti papà. E non ridere, io prima o poi quella radio che le hai regalato la getto nella spazzatura, siete avvertiti, tutti e due. Che faccia hai…sto diventando un po’ nevrotica, amore mio?

La guardo in controluce. E’ con il sole alle spalle ed il marmo secolare e consumato intorno. In questa aria tersa romana che ricopre tutto di classicità. Un dipinto preraffaellita. Ed, ahimè! temo di sapere chi sia l’amico torinese di passaggio da Roma che ci ha tanto tenuto a farmi una improvvisata! E ci è riuscito! Maurizio è uno che non rinuncia tanto facilmente, malgrado i tanti no che gli ho mandato a dire tramite i suoi emissari.

Cesare Prudente