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mercoledì 16 novembre 2011

Galeotto fu il libro

Geltrude Pellegrini (Monteguidone 1806 circa - Roma 1838)

Ne ha viste saltare così tante di teste Mastro Titta - e non in senso metaforico - che ormai ci ha fatto il callo. L’infaticabile boia non si spaventa certo davanti a un po’ di sangue, ma quella del 9 gennaio 1838, in via dei Cerchi, non è una decapitazione di routine. La folla è immensa, stipata in strada, alle finestre, con tanto di binocolo per vedere meglio lo spettacolo. Inusuale, perché al patibolo non è atteso uno dei soliti brutti ceffi, ma una ragazza affascinante ed educata. Assassina per amore. Geltrude Pellegrini arriva, assistita dai confratelli dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, scende dalla carrozza, sale con passo fermo i gradini, bacia il crocifisso e si prepara per l’esecuzione.
La storia della giovane originaria di Monteguidone, in provincia di Rieti, la conosciamo grazie al romanzato racconto del carnefice. Geltrude è una bellissima ragazza corteggiata da tutti. Scrive, ricama, fa di conto. La madre è orgogliosa, ma anche un poco preoccupata. Invece di cercare marito la figlia passa il tempo a leggere libri. Oggetti a volte pericolosi, perché possono mettere in testa strane idee. D’estate Geltrude trascorre ore e ore sui prati alle prese con il suo mondo fantastico. Finché un giorno realtà e finzione arrivano quasi a toccarsi.
Sembra infatti uscito da un romanzo il bel giovane alto e biondo che la ragazza si trova di fronte un pomeriggio d’agosto. Un cacciatore, con il fucile in spalla. Vive a Roma e si è perso nella macchia. Per tutta la notte Geltrude non chiude occhio, non fa che pensare a lui. Il giorno dopo, nuovo incontro. Galeotto fu il libro... Da allora, ogni volta è un vortice di baci, abbracci, sospiri. Passione. Fino alla doccia fredda. Enrico è sposato. Le sembra di impazzire e tronca tutto. Tre mesi dopo, il matrimonio riparatore. Francesco Stefanotti è un ricco bottegaio sulla quarantina. Geltrude va a vivere con lui a Roma, lavora nel suo negozio. Un giorno uguale all’altro. Tutta routine, niente emozioni.
Finché una mattina davanti alla bottega di Geltrude passa un corteo funebre. Lei si affaccia, curiosa. È morta una donna di parto. Ma non una qualunque. La moglie di Enrico. Sviene. Una settimana dopo lui si fa vivo, di nascosto le dà un biglietto. Domenica alle 10 a San Pietro. Geltrude è sicura, non andrà. Invece va. La passione è viva, riprendono gli appuntamenti clandestini. A ruoli invertiti.
Un imprevisto fa saltare il precario equilibrio. Il marito cede il negozio. Può permetterselo e non gli pare vero di dedicare più tempo alla moglie. Per lei è un dramma. Vede svanire la possibilità di incontrare Enrico. Deve liberarsi di lui. Non ha scelta.
Dopo una serata di sesso intenso, appena il marito si addormenta, sfinito, Geltrude prende un affilato coltello e glielo affonda nel petto. Poi si veste, raccoglie le sue cose, i valori, il denaro. Mette tutto in due valigie e esce.
Si presenta a casa dell’amante alle prime luci dell’alba. Spossata, ma leggera. Sono finalmente liberi, entrambi. Enrico la accoglie in modo freddo, scostante. Pensa sia fuggita di casa ed è terrorizzato dalla responsabilità. Geltrude gli racconta cosa è successo. L’uomo inorridisce. Tutto intorno a lei inizia a girare vorticosamente. Si sente mancare le forze. È arrivata a uccidere per stare con lui e ora viene respinta. La vita non ha più senso. Se ne va, con le due valigie. Prende una carrozza, si fa portare dal monsignor Fiscale. Al magistrato confessa il delitto nei particolari. Tace solo il nome dell’amante. Non tradisce, nonostante il dolore e la delusione. Su questo è irremovibile, per tutto il processo. Al termine del colloquio Geltrude Pellegrini, proveniente da Rieti, di anni ventiquattro, professione donna di casa viene condotta nelle segrete delle Carceri nuove. È il 29 giugno 1830. L’accusa è di parricidio. Definizione allora usata per qualsiasi uccisione di un parente.
Nel dicembre 1832 c’è la prima sentenza. Pena capitale. Il ricorso al Tribunale della Sacra Consulta si conclude il 31 dicembre 1836 con la definitiva condanna «a morte di esemplarità». Che in genere «si eseguisce colla fucilazione alle spalle». Per Geltrude, invece, c’è la ghigliottina.
Lo spettacolo in piazza è molto atteso. Perché le donne romane dell’Ottocento non sono stinchi di santo, ma le questioni di vicinato, gelosia o rivalità amorose le risolvono al massimo a suon di botte e coltellate. Sempre violenza, certo, ma ben diversa dall’omicidio.
Mastro Titta nelle sue memorie ricorda: «Non appena fu caduto sotto il colpo della ghigliottina, afferrai per i capelli il capo della bellissima donna e sollevandolo lo mostrai alla folla attonita e commossa come non mi era mai accaduto di vedere». Chissà che un brivido non abbia attraversato anche la sua schiena.

Paola Staccioli

3 commenti:

  1. è un bel racconto specie perchè, anzichè pubblicare una scarna biografia, ne viene fuori un piccolo romanzo. Complimenti Paola

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  2. Chissà quali saranno stati gli ultimi pensieri di Getrude davanti alla ghigliottina e negli ultimi istanti prima di essere decapitata... Pur nella sua tragicità ha avuto un'epilogo degno di una regina inclusa la drammatica esposizione finale della sua testa troncata dalla terribile macchina.

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  3. E pensare che è accaduto davvero... Dovrebbero farne un film. Io al posto di Geltrude avrei tremato come una foglia alla sola vista della ghigliottina sapendo che dopo poco mi avrebbero tagliato la testa... Geltrude invece è stata molto coraggiosa e ferma anche se purtroppo aveva sbagliato con i suoi atti. Un po' macabro l'epilogo del boia che ha mostrato la testa mozzata al pubblico ma a quei tempi si usava così.

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