Mia madre aveva una sorella poco
più grande che si chiamava Maria Rosa. Le sorelle avevano caratteri molto
diversi tra loro. Ribelle e autoritaria e non sottostava a nessuno mia madre.
Remissiva e accondiscendente mia zia. Il destino le separò e benché si siano
sempre volute bene, ben poche volte si sono fatte compagnia.
Mia zia visse a Riace con dei
parenti e ben poco so di lei prima di conoscere lo zio, suo futuro marito. Mia madre andò a vivere a Stilo a
casa del notaio della cittadina, parente dei genitori delle due sorelle non so
di quale grado. Di quel ramo da ragazzo a Roma ho conosciuto Donna Fanny poco
prima che morisse. La casa era una reggia. Mia madre viveva da regina riverita
dagli abitanti del paese, visto il grado del suo tutore.
Mia madre mi raccontò che aveva
un gatto che aveva addestrato a ritornare a casa quando lo allontanava. I gatti
a quel tempo avevano un certo valore. Ebbene lei lo vendeva e il gatto
ritornava regolarmente a casa. Mi disse che lo vendette molte volte.
Raggiunta la maggiore età,
ventuno anni, nel millenovecentotrentacinque, il notaio la diede in sposa a mio
padre Salvatore Meli di Stilo, anche per liberarsi di lei, carattere
irrequieto. Li mandò a vivere a Roma e trovò un lavoro a mio padre per vivere
con decoro. Purtroppo quello stesso anno fallì il Banco di Reggio Calabria dove
mia madre aveva i suoi risparmi lasciati in eredità dai genitori e, quindi,
perse tutto.
Quando mia madre partì per Roma
fece atto di rinuncia alla casa, che possedevano lei e la sorella Riace, in
favore di quest’ultima perché il suo futuro marito, detto come soprannome il
ceraro, voleva in dote la casa. Comunque mio zio, anche con la distanza che li
separava e secondo le sue disponibilità, ha sempre aiutato l’irrequieta cognata
con cose e ospitalità. Infatti, diceva spesso che la casa era sempre aperta per
mia madre e la sua discendenza.
Mia madre perse i primi due figli
gemelli, nati morti a causa di una caduta rovinosa a Piazza Vittorio. Il terzo
lo perse quando aveva tre mesi: nacque con il labbro leporino e privo di parte
del palato. Infatti, durante la gravidanza una lucertola gli era caduta nel
petto e lo spavento gli aveva procurato un arresto di sangue con il conseguente
problema al bambino. I medici non erano riusciti a salvarlo. Si chiamava
Maurizio. La quarta, Rosaria, bellissima a detta di mia madre, morì a otto mesi
circa. Mio padre, imprudente, la portò fuori casa con un vestito leggero:
faceva freddo, si ammalò, prese la broncopolmonite e non si riprese più. Poi
nacqui io, che mi chiamo Luigi in ricordo di mio nonno. Infine, mio fratello
Luciano, vivente.
Dopo la nascita
dell’ultimogenito, mia madre cominciò ad avere dissapori con mio padre. Gli
diceva che non aveva voglia di lavorare e mio padre rispondeva che non andava
d’accordo con i datori di lavoro. A quel tempo mia madre lavorava alla Buitoni.
Anni dopo decise di separarsi da mio padre. Si presentarono davanti al giudice
nel palazzaccio. Si separarono e all’uscita dal tribunale mia madre ci mise, a
me e mio fratello, sugli gradini della scalinata e ci disse di non muoverci. Si
allontanò da noi e si nascose in un angolo. Voleva vedere la reazione di mio
padre alla nostra vista, una volta uscito. Disse mia madre poi che egli ci
guardò, si girò dall’altra parte e si allontanò. Mia madre ci riprese e noi siamo
stati sempre con lei. Mio padre non l’abbiamo più rivisto.
Dieci dopo la morte di mio padre,
avvenuta nel millenovecentottantuno, sono venuto a sapere da una delle sue sorelle
dove era sepolto. Ho fatto riesumare le sue ossa e ora riposano in pace in un
loculo a Primaporta. Ho avuto una piccola eredità lasciata da un’altra sorella
di mio padre morta vedova e senza figli. Mi ha cercato mia cugina appunto per
dividere l’eredità.
Dopo il periodo con la Buitoni, di
cui conservo una fotografia con tutte le maestranze donne compresa mia madre
con in mezzo il titolare, andò a lavorare alla Fulgida. In tempo di guerra fece
la bigliettaia sui tram. Fece anche altri lavori per mantenerci, ma non ricordo
quali.
Dopo la guerra lavorò per la CRI
andando in giro per Roma su un carro trainato da cavalli con sopra un grosso
salvadanaio. Poi iniziò a lavorare stagionalmente ai Mercati Generali con una
certa assiduità come capatrice di frutta. Mio zio si informava anno per anno in
quale baracca lavorasse perché in uno dei vagoni carico di aranci che
arrivavano dalla Calabria e destinato proprio ai mercati egli vi caricava un
pacco di viveri che mia madre ritirava all’arrivo del vagone. Tra le sue
attività, mio zio era anche sensale, ossia valutava la quantità di arance su di
un albero e metteva d’accordo contadino e grossista.
Finita la stagione di lavoro,
oltre al normale salario, mia madre reclamava al titolare della baracca il
versamento dei contributi che non avvenivano mai.
Si rivolgeva ai sindacati che si
presentavano alla baracca e ne uscivano con una cassetta di frutta e i
contributi regolarmente non venivano versati. L’anno successivo, all’inizio
della nuova stagione, tornava a lavorare magari alla stessa baracca che aveva
denunciato.
Tutto è avvenuto nell’arco di tempo
di circa quarant’anni.
Nel millenovecentoquarantotto mia
madre fu colta da un attacco di ulcera perforante allo stomaco. Portata con
urgenza all’ospedale, fu operata dal professor Valdoni. Mi raccontò mia madre
che durante l’operazione il professore le parlava in continuazione poiché lei
era sveglia poteva rispondere alle domande: infatti, le avevano fatto per
anestesia la puntura lombare. Guarì completamente dall’ulcera, ma soffrì per
molti anni ancora a causa dell’anestesia. L’ulcera è una malattia ereditaria di
forma benigna. Mio fratello fu operato anch’egli per ulcera perforante allo
stomaco a vent’anni di età e accorsero, da me trovati, sedici donatori di
sangue, me compreso. Io stesso fui colpito da ulcera duodenale a quarantatre
anni e sono stato curato con medicinali. Molti anni dopo l’ulcera mi andò in
stenosi, cioè il cibo non passava, e sono stato nutrito per ventisei giorni con
flebo in attesa di essere operato. Mi diedero del thè, poi delle minestrine e
alla fine il cibo cominciò a ripercorrere il giusto tragitto. Non fui più
operato. Ora prendo un medicinale specifico ad ogni cambio di stagione. Mia
zia, il figlio e la figlia hanno tutti sofferto di ulcera.
Mia madre molto dinamica, sui
settant’anni, trovò lavoro come baby sitter a casa di un alto funzionario
dell’Inps in pensione che aveva una moglie molto giovane e due figli piccoli.
Lei li doveva custodire e seguire la famiglia anche in altre città. Una di
queste fu Venezia. In seguito, gli raccontò la sua situazione pensionistica:
aveva lavorato una vita, ma aveva pochi contributi versati. Il funzionario
prese a cuore la sua storia, le disse di fare determinati documenti e gli diede
appuntamento nella sede dell’Inps a Via dell’Amba Aradam. Pochissimo tempo dopo
le fu assegnata una pensione.
Negli ultimi tempi della sua vita, voleva sapere notizie sui suoi
genitori. Le chiese a mio zio, ma egli non ha mai voluto dire niente. O non
sapeva o non voleva dire. Si rivolse ad un parente non so di quale grado, il
presidente della Corte dei Conti Condemi, ma egli non seppe dirle nulla. Mio
zio morì e fu sepolto a Riace. Mia zia morì qualche anno dopo e fu sepolta a
Cerasole d’Alba. Mia madre passò gli ultimi anni col desiderio di tornare a
Riace e cercare nell’archivio del comune le sue origini. Morì serenamente a
circa novant’anni ed ora riposa al cimitero di Primaporta in un fornetto che si
era comprata.di Luigi Meli
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