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mercoledì 5 dicembre 2012

Mia madre

Mia madre era nata a Riace. Si chiamava Cosimina e prima che essa nascesse le morì il padre, mio nonno Luigi Carnà. Pochi anni dopo, mia madre aveva due o tre anni, le morì anche la madre, mia nonna Elisabetta Tornese.

Mia madre aveva una sorella poco più grande che si chiamava Maria Rosa. Le sorelle avevano caratteri molto diversi tra loro. Ribelle e autoritaria e non sottostava a nessuno mia madre. Remissiva e accondiscendente mia zia. Il destino le separò e benché si siano sempre volute bene, ben poche volte si sono fatte compagnia.

Mia zia visse a Riace con dei parenti e ben poco so di lei prima di conoscere lo zio, suo futuro  marito. Mia madre andò a vivere a Stilo a casa del notaio della cittadina, parente dei genitori delle due sorelle non so di quale grado. Di quel ramo da ragazzo a Roma ho conosciuto Donna Fanny poco prima che morisse. La casa era una reggia. Mia madre viveva da regina riverita dagli abitanti del paese, visto il grado del suo tutore.

Mia madre mi raccontò che aveva un gatto che aveva addestrato a ritornare a casa quando lo allontanava. I gatti a quel tempo avevano un certo valore. Ebbene lei lo vendeva e il gatto ritornava regolarmente a casa. Mi disse che lo vendette molte volte.

Raggiunta la maggiore età, ventuno anni, nel millenovecentotrentacinque, il notaio la diede in sposa a mio padre Salvatore Meli di Stilo, anche per liberarsi di lei, carattere irrequieto. Li mandò a vivere a Roma e trovò un lavoro a mio padre per vivere con decoro. Purtroppo quello stesso anno fallì il Banco di Reggio Calabria dove mia madre aveva i suoi risparmi lasciati in eredità dai genitori e, quindi, perse tutto.

Quando mia madre partì per Roma fece atto di rinuncia alla casa, che possedevano lei e la sorella Riace, in favore di quest’ultima perché il suo futuro marito, detto come soprannome il ceraro, voleva in dote la casa. Comunque mio zio, anche con la distanza che li separava e secondo le sue disponibilità, ha sempre aiutato l’irrequieta cognata con cose e ospitalità. Infatti, diceva spesso che la casa era sempre aperta per mia madre e la sua discendenza.

Mia madre perse i primi due figli gemelli, nati morti a causa di una caduta rovinosa a Piazza Vittorio. Il terzo lo perse quando aveva tre mesi: nacque con il labbro leporino e privo di parte del palato. Infatti, durante la gravidanza una lucertola gli era caduta nel petto e lo spavento gli aveva procurato un arresto di sangue con il conseguente problema al bambino. I medici non erano riusciti a salvarlo. Si chiamava Maurizio. La quarta, Rosaria, bellissima a detta di mia madre, morì a otto mesi circa. Mio padre, imprudente, la portò fuori casa con un vestito leggero: faceva freddo, si ammalò, prese la broncopolmonite e non si riprese più. Poi nacqui io, che mi chiamo Luigi in ricordo di mio nonno. Infine, mio fratello Luciano, vivente.

Dopo la nascita dell’ultimogenito, mia madre cominciò ad avere dissapori con mio padre. Gli diceva che non aveva voglia di lavorare e mio padre rispondeva che non andava d’accordo con i datori di lavoro. A quel tempo mia madre lavorava alla Buitoni. Anni dopo decise di separarsi da mio padre. Si presentarono davanti al giudice nel palazzaccio. Si separarono e all’uscita dal tribunale mia madre ci mise, a me e mio fratello, sugli gradini della scalinata e ci disse di non muoverci. Si allontanò da noi e si nascose in un angolo. Voleva vedere la reazione di mio padre alla nostra vista, una volta uscito. Disse mia madre poi che egli ci guardò, si girò dall’altra parte e si allontanò. Mia madre ci riprese e noi siamo stati sempre con lei. Mio padre non l’abbiamo più rivisto.

Dieci dopo la morte di mio padre, avvenuta nel millenovecentottantuno, sono venuto a sapere da una delle sue sorelle dove era sepolto. Ho fatto riesumare le sue ossa e ora riposano in pace in un loculo a Primaporta. Ho avuto una piccola eredità lasciata da un’altra sorella di mio padre morta vedova e senza figli. Mi ha cercato mia cugina appunto per dividere l’eredità.

Dopo il periodo con la Buitoni, di cui conservo una fotografia con tutte le maestranze donne compresa mia madre con in mezzo il titolare, andò a lavorare alla Fulgida. In tempo di guerra fece la bigliettaia sui tram. Fece anche altri lavori per mantenerci, ma non ricordo quali.

Dopo la guerra lavorò per la CRI andando in giro per Roma su un carro trainato da cavalli con sopra un grosso salvadanaio. Poi iniziò a lavorare stagionalmente ai Mercati Generali con una certa assiduità come capatrice di frutta. Mio zio si informava anno per anno in quale baracca lavorasse perché in uno dei vagoni carico di aranci che arrivavano dalla Calabria e destinato proprio ai mercati egli vi caricava un pacco di viveri che mia madre ritirava all’arrivo del vagone. Tra le sue attività, mio zio era anche sensale, ossia valutava la quantità di arance su di un albero e metteva d’accordo contadino e grossista.

Finita la stagione di lavoro, oltre al normale salario, mia madre reclamava al titolare della baracca il versamento dei contributi che non avvenivano mai.

Si rivolgeva ai sindacati che si presentavano alla baracca e ne uscivano con una cassetta di frutta e i contributi regolarmente non venivano versati. L’anno successivo, all’inizio della nuova stagione, tornava a lavorare magari alla stessa baracca che aveva denunciato.

Tutto è avvenuto nell’arco di tempo di circa quarant’anni.

Nel millenovecentoquarantotto mia madre fu colta da un attacco di ulcera perforante allo stomaco. Portata con urgenza all’ospedale, fu operata dal professor Valdoni. Mi raccontò mia madre che durante l’operazione il professore le parlava in continuazione poiché lei era sveglia poteva rispondere alle domande: infatti, le avevano fatto per anestesia la puntura lombare. Guarì completamente dall’ulcera, ma soffrì per molti anni ancora a causa dell’anestesia. L’ulcera è una malattia ereditaria di forma benigna. Mio fratello fu operato anch’egli per ulcera perforante allo stomaco a vent’anni di età e accorsero, da me trovati, sedici donatori di sangue, me compreso. Io stesso fui colpito da ulcera duodenale a quarantatre anni e sono stato curato con medicinali. Molti anni dopo l’ulcera mi andò in stenosi, cioè il cibo non passava, e sono stato nutrito per ventisei giorni con flebo in attesa di essere operato. Mi diedero del thè, poi delle minestrine e alla fine il cibo cominciò a ripercorrere il giusto tragitto. Non fui più operato. Ora prendo un medicinale specifico ad ogni cambio di stagione. Mia zia, il figlio e la figlia hanno tutti sofferto di ulcera.

Mia madre molto dinamica, sui settant’anni, trovò lavoro come baby sitter a casa di un alto funzionario dell’Inps in pensione che aveva una moglie molto giovane e due figli piccoli. Lei li doveva custodire e seguire la famiglia anche in altre città. Una di queste fu Venezia. In seguito, gli raccontò la sua situazione pensionistica: aveva lavorato una vita, ma aveva pochi contributi versati. Il funzionario prese a cuore la sua storia, le disse di fare determinati documenti e gli diede appuntamento nella sede dell’Inps a Via dell’Amba Aradam. Pochissimo tempo dopo le fu assegnata una pensione.
Negli ultimi tempi della sua vita, voleva sapere notizie sui suoi genitori. Le chiese a mio zio, ma egli non ha mai voluto dire niente. O non sapeva o non voleva dire. Si rivolse ad un parente non so di quale grado, il presidente della Corte dei Conti Condemi, ma egli non seppe dirle nulla. Mio zio morì e fu sepolto a Riace. Mia zia morì qualche anno dopo e fu sepolta a Cerasole d’Alba. Mia madre passò gli ultimi anni col desiderio di tornare a Riace e cercare nell’archivio del comune le sue origini. Morì serenamente a circa novant’anni ed ora riposa al cimitero di Primaporta in un fornetto che si era comprata.

di Luigi Meli

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