Se desideri pubblicare il tuo racconto su una donna di Roma lo puoi scrivere come commento a un post esistente, oppure inviarlo con una EMAIL (clicca qui) a Paola Staccioli, specificando il tuo nome (e se vuoi che sia reso pubblico), il titolo o il nome della donna. Il racconto sarà pubblicato in un nuovo post dagli amministratori del blog.

mercoledì 5 dicembre 2012

Giovedì 13 dicembre ore 18.30
Donne di Roma. Madri, regine, artiste, eroine, streghe, ribelli.
Narrazione di e con Paola Staccioli. Immagini: Marco di Renzo.
A Lignarius, via Mecenate, 35.
Testi tratti dal libro 101 donne che hanno fatto grande Roma.

Mia madre

Mia madre era nata a Riace. Si chiamava Cosimina e prima che essa nascesse le morì il padre, mio nonno Luigi Carnà. Pochi anni dopo, mia madre aveva due o tre anni, le morì anche la madre, mia nonna Elisabetta Tornese.

Mia madre aveva una sorella poco più grande che si chiamava Maria Rosa. Le sorelle avevano caratteri molto diversi tra loro. Ribelle e autoritaria e non sottostava a nessuno mia madre. Remissiva e accondiscendente mia zia. Il destino le separò e benché si siano sempre volute bene, ben poche volte si sono fatte compagnia.

Mia zia visse a Riace con dei parenti e ben poco so di lei prima di conoscere lo zio, suo futuro  marito. Mia madre andò a vivere a Stilo a casa del notaio della cittadina, parente dei genitori delle due sorelle non so di quale grado. Di quel ramo da ragazzo a Roma ho conosciuto Donna Fanny poco prima che morisse. La casa era una reggia. Mia madre viveva da regina riverita dagli abitanti del paese, visto il grado del suo tutore.

Mia madre mi raccontò che aveva un gatto che aveva addestrato a ritornare a casa quando lo allontanava. I gatti a quel tempo avevano un certo valore. Ebbene lei lo vendeva e il gatto ritornava regolarmente a casa. Mi disse che lo vendette molte volte.

Raggiunta la maggiore età, ventuno anni, nel millenovecentotrentacinque, il notaio la diede in sposa a mio padre Salvatore Meli di Stilo, anche per liberarsi di lei, carattere irrequieto. Li mandò a vivere a Roma e trovò un lavoro a mio padre per vivere con decoro. Purtroppo quello stesso anno fallì il Banco di Reggio Calabria dove mia madre aveva i suoi risparmi lasciati in eredità dai genitori e, quindi, perse tutto.

Quando mia madre partì per Roma fece atto di rinuncia alla casa, che possedevano lei e la sorella Riace, in favore di quest’ultima perché il suo futuro marito, detto come soprannome il ceraro, voleva in dote la casa. Comunque mio zio, anche con la distanza che li separava e secondo le sue disponibilità, ha sempre aiutato l’irrequieta cognata con cose e ospitalità. Infatti, diceva spesso che la casa era sempre aperta per mia madre e la sua discendenza.

Mia madre perse i primi due figli gemelli, nati morti a causa di una caduta rovinosa a Piazza Vittorio. Il terzo lo perse quando aveva tre mesi: nacque con il labbro leporino e privo di parte del palato. Infatti, durante la gravidanza una lucertola gli era caduta nel petto e lo spavento gli aveva procurato un arresto di sangue con il conseguente problema al bambino. I medici non erano riusciti a salvarlo. Si chiamava Maurizio. La quarta, Rosaria, bellissima a detta di mia madre, morì a otto mesi circa. Mio padre, imprudente, la portò fuori casa con un vestito leggero: faceva freddo, si ammalò, prese la broncopolmonite e non si riprese più. Poi nacqui io, che mi chiamo Luigi in ricordo di mio nonno. Infine, mio fratello Luciano, vivente.

Dopo la nascita dell’ultimogenito, mia madre cominciò ad avere dissapori con mio padre. Gli diceva che non aveva voglia di lavorare e mio padre rispondeva che non andava d’accordo con i datori di lavoro. A quel tempo mia madre lavorava alla Buitoni. Anni dopo decise di separarsi da mio padre. Si presentarono davanti al giudice nel palazzaccio. Si separarono e all’uscita dal tribunale mia madre ci mise, a me e mio fratello, sugli gradini della scalinata e ci disse di non muoverci. Si allontanò da noi e si nascose in un angolo. Voleva vedere la reazione di mio padre alla nostra vista, una volta uscito. Disse mia madre poi che egli ci guardò, si girò dall’altra parte e si allontanò. Mia madre ci riprese e noi siamo stati sempre con lei. Mio padre non l’abbiamo più rivisto.

Dieci dopo la morte di mio padre, avvenuta nel millenovecentottantuno, sono venuto a sapere da una delle sue sorelle dove era sepolto. Ho fatto riesumare le sue ossa e ora riposano in pace in un loculo a Primaporta. Ho avuto una piccola eredità lasciata da un’altra sorella di mio padre morta vedova e senza figli. Mi ha cercato mia cugina appunto per dividere l’eredità.

Dopo il periodo con la Buitoni, di cui conservo una fotografia con tutte le maestranze donne compresa mia madre con in mezzo il titolare, andò a lavorare alla Fulgida. In tempo di guerra fece la bigliettaia sui tram. Fece anche altri lavori per mantenerci, ma non ricordo quali.

Dopo la guerra lavorò per la CRI andando in giro per Roma su un carro trainato da cavalli con sopra un grosso salvadanaio. Poi iniziò a lavorare stagionalmente ai Mercati Generali con una certa assiduità come capatrice di frutta. Mio zio si informava anno per anno in quale baracca lavorasse perché in uno dei vagoni carico di aranci che arrivavano dalla Calabria e destinato proprio ai mercati egli vi caricava un pacco di viveri che mia madre ritirava all’arrivo del vagone. Tra le sue attività, mio zio era anche sensale, ossia valutava la quantità di arance su di un albero e metteva d’accordo contadino e grossista.

Finita la stagione di lavoro, oltre al normale salario, mia madre reclamava al titolare della baracca il versamento dei contributi che non avvenivano mai.

Si rivolgeva ai sindacati che si presentavano alla baracca e ne uscivano con una cassetta di frutta e i contributi regolarmente non venivano versati. L’anno successivo, all’inizio della nuova stagione, tornava a lavorare magari alla stessa baracca che aveva denunciato.

Tutto è avvenuto nell’arco di tempo di circa quarant’anni.

Nel millenovecentoquarantotto mia madre fu colta da un attacco di ulcera perforante allo stomaco. Portata con urgenza all’ospedale, fu operata dal professor Valdoni. Mi raccontò mia madre che durante l’operazione il professore le parlava in continuazione poiché lei era sveglia poteva rispondere alle domande: infatti, le avevano fatto per anestesia la puntura lombare. Guarì completamente dall’ulcera, ma soffrì per molti anni ancora a causa dell’anestesia. L’ulcera è una malattia ereditaria di forma benigna. Mio fratello fu operato anch’egli per ulcera perforante allo stomaco a vent’anni di età e accorsero, da me trovati, sedici donatori di sangue, me compreso. Io stesso fui colpito da ulcera duodenale a quarantatre anni e sono stato curato con medicinali. Molti anni dopo l’ulcera mi andò in stenosi, cioè il cibo non passava, e sono stato nutrito per ventisei giorni con flebo in attesa di essere operato. Mi diedero del thè, poi delle minestrine e alla fine il cibo cominciò a ripercorrere il giusto tragitto. Non fui più operato. Ora prendo un medicinale specifico ad ogni cambio di stagione. Mia zia, il figlio e la figlia hanno tutti sofferto di ulcera.

Mia madre molto dinamica, sui settant’anni, trovò lavoro come baby sitter a casa di un alto funzionario dell’Inps in pensione che aveva una moglie molto giovane e due figli piccoli. Lei li doveva custodire e seguire la famiglia anche in altre città. Una di queste fu Venezia. In seguito, gli raccontò la sua situazione pensionistica: aveva lavorato una vita, ma aveva pochi contributi versati. Il funzionario prese a cuore la sua storia, le disse di fare determinati documenti e gli diede appuntamento nella sede dell’Inps a Via dell’Amba Aradam. Pochissimo tempo dopo le fu assegnata una pensione.
Negli ultimi tempi della sua vita, voleva sapere notizie sui suoi genitori. Le chiese a mio zio, ma egli non ha mai voluto dire niente. O non sapeva o non voleva dire. Si rivolse ad un parente non so di quale grado, il presidente della Corte dei Conti Condemi, ma egli non seppe dirle nulla. Mio zio morì e fu sepolto a Riace. Mia zia morì qualche anno dopo e fu sepolta a Cerasole d’Alba. Mia madre passò gli ultimi anni col desiderio di tornare a Riace e cercare nell’archivio del comune le sue origini. Morì serenamente a circa novant’anni ed ora riposa al cimitero di Primaporta in un fornetto che si era comprata.

di Luigi Meli

martedì 11 settembre 2012

Venanza Spuntarelli, una vita a servizio

Una volta, non tanto tempo fa, i lavori adesso appannaggio di immigrati da paesi lontani erano svolti dalle ragazze delle regioni più povere d’Italia che venivano a lavorare nelle famiglie borghesi di Roma. Venivano dalla lontana Sicilia o dalla Sardegna, con viaggi che negli anni ’50 e ’60 del 1900 dovevano sembrare lunghissimi. O dalla campagna in corso di spopolamento di regioni vicine, per cercare di “campare la vita” in città. Molte ragazze venivano dalle montagne dell’Abruzzo. Venanza invece era marchigiana. Come si usava allora il fratello maschio aveva ereditato le terre e un lavoro spesso faticoso e marginale, mentre la figlia femmina emigrava.
Venanza era grossa, rubiconda. Come una matrioska russa era rossa in viso con l’eterna "parainnanzi" legata a fare da cintura sopra la gonna. Le ciabatte sformate che ancora porta qualche rara vecchia comare trasteverina.

Era arrivata a casa nostra da Visso insieme alla sua lingua un po’ rozza, a un'ignoranza saggia non guastata dai tre anni passati in una scuola elementare che immaginavo ai lati di una strada bianca con un cancelletto verde. La luna per lei era popolata dai fantasmi di Caino e Abele. Il sole continuava tranquillo a girare intorno alla terra, quattro secoli dopo Galileo. Parlava per proverbi. Se un giorno noi bambini eravamo agitati avevamo sicuramente “mangiato gli zompi”. Lasciare qualcosa nel piatto era un sacrilegio perché “è meglio che il corpo crepi che la robba se sprechi”. Il pane secco veniva riciclato per le cotolette della domenica. L’olio fritto era filtrato e riutilizzato ad oltranza. Persino il grasso del pollo arrosto veniva conservato e fatto affiorare in frigorifero per cucinare certe frittate di patate, certo non dietetiche ma piene di sapori antichi. Sapeva però distinguere ad intuito il buono dal cattivo, Il giusto dall’ingiustizia. E mal sopportava i capricci dei “suoi bambini” troppo viziati, che sgridava e puniva senza chiedere il permesso a nessuno.

Occupava una stanzetta cieca, larga poco più del suo letto, che dava su un bagno di servizio dove aleggiava sempre un odore fatto di sapone da bucato e di vestiti sporchi, di vecchie scarpe e stracci bagnati. Su una sedia le sue riviste preferite. L’ultimo numero di Grand’Hotel, un fotoromanzo in bianco e nero. Sopra, a coprire queste letture peccaminose la vecchia edizione nera e rossa dei Vangeli. Il pomeriggio, se rimanevo solo a casa, mi toccava accompagnarla a far visita al portiere in guardiola oppure seguirla in chiesa, per la novena di maggio o la via crucis pasquale. Metteva allora una gonna più scura e si copriva il capo con un fazzoletto ricamato. Lo stesso vestito lo indossava il giovedì e la domenica pomeriggio per le sue ore di libertà o per le visite ai parenti.

Trent’anni vissuti così senza lasciare la nostra casa. Solo quindici giorni di vacanza l’anno a "fare i lavori" nella casa del fratello. Vivendo solo per noi.  Un giorno scoprì di essere malata. Un tumore all’intestino. Che accettò con la pazienza e la rassegnazione con la quale un tempo si accettavano tutte le disgrazie della vita, come la morte. Dopo qualche mese però tornò guarita. Ma ormai era diventata un peso e se ne dovette andare. La andai a trovare una volta nella sua campagna. Ormai era stanca e come inselvatichita. In mio onore uccise un povero piccione e lo cucinò. Ricorderò per sempre quel piccione.

Marco Di Renzo

lunedì 10 settembre 2012

Tanaquilla, la regina che regnò due volte - VII secolo a.c.

Non ebbe tanta fama nella letteratura, fu vista come un personaggio oscuro.

Tito Livio nel suo “Ab Urbe Condita” ci racconta che era una donna etrusca, appartenente ad una famiglia aristocratica di Tarquinia. Lì conobbe Lucumune, figlio di Demarato, originario di Corinto. Alla morte del padre, Lucumone ereditò tutto il patrimonio, ma essendo straniero, veniva trattato con diffidenza, tenuto lontano dal potere.

Si innamorò di Tanaquilla. E lei di lui. Con la decisione di dirigersi verso la giovane Roma, si accende la speranza che lì le porte potrebbero aprirsi.

Sempre Livio ci racconta il viaggio, attraverso i monti ed il lago di Bolsena. Poi seguendo la costa laziale, risalirono il Tevere, fino alla città allora governata da Anco Marzio. Un’aquila, nei pressi del Gianicolo, porta via il cappello dell’uomo, poi lo rimette al suo posto: è il segnale dal cielo, l’auspicio favorevole.

Lucumone, giunto a Roma, cambia il suo nome in Lucio Tarquinio Prisco. Con l’aiuto della moglie emerge in ogni campo sociale: militare e civile. Diventa notissimo in tutta l’Urbe. È sempre Tanaquilla a consigliarlo nelle decisioni, a guidarlo.

Anco Marzio muore, Prisco fa una convincente campagna elettorale e vince. Diventa il quinto re di Roma!

Sotto il suo regno Roma cresce, è una città piena di vita, sono celebrati giochi. Ma lui si fida solo della moglie, la quale vive nell’ombra. Lei pensa al loro futuro. Una nobildonna sua amica ha un figlio: Servio Tullio. Quest’ultimo sposa una delle figlie del re. I figli di Anco Marzio comprendono il pericolo di rimanere fuori dai giochi e uccidono il re Tarquinio.

Ma Tanaquilla nasconde la morte del marito e gli fa dire che ha nominato reggente ad interim di Roma il genero Servio Tullio: è il primo caso a Roma di un re nominato dal suo predecessore.

In realtà, Tanaquilla diventa regina per la seconda volta e scompare nuovamente dalla scena. Ma continua la sua attività di consigliera. Negli anni a seguire le sue reliquie, un mantello  confezionato per il marito - e un ferma capelli sono oggetto di venerazione nel tempio della dea Fortuna.
Giovenale la definisce fredda, strega e cospiratrice. Però, forse, le fortune future di Roma dipenderanno proprio dalle sue azioni e dai suoi consigli.

M. R.

lunedì 3 settembre 2012

Ersilia, la moglie del re

Lei, sabina, era la moglie di Osto Ostilio, un romano, amico di Romolo.
Quel 21 agosto di circa 2750 anni fa si era nel pieno dei festeggiamenti dei Consualia, in onore del dio Consus.
Ad un cenno del re, i Romani strapparono ai Sabini - giunti per l'occasione - le loro donne. Nel trambusto generale, Romolo ebbe proprio lei: Ersilia. Anche se per errore. Era una donna che non si risparmiava per gli altri, anzi durante il ratto tentò di proteggere le ragazze.

Nei mesi successivi i Sabini si organizzarono, comandati dal loro re Tito Tazio. Nel frattempo si celebravano i matrimoni tra Sabine e Romani. Nacquero i figli di queste unioni.

Venne il giorno in cui Tazio con i suoi guerrieri attaccò i Romani. Voleva riprendersi le figlie del suo popolo, strappate a loro brutalmente. Ebbe inizio la battaglia con alterne fortune. Ma lei aveva il suo piano: con tutte le altre donne si precipitò nel campo ove infuriavano gli scontri tra i due eserciti, il futuro Foro Romano.
Con le sue grida:
"uccidete noi, non vogliamo piangere i nostri mariti ed i nostri padri. I Sabini ed i Romani, ormai, sono un unico popolo!"
le donne si interposero tra i duellanti, fermarono il conflitto fratricida.

Avvenne ciò che lei auspicava: Romani i mariti, Sabini i padri, uniti fra loro.
La prima guerra romana era terminata e nel migliore dei modi. Il tempo passò, Romolo ascese in cielo, ma più probabilmente fu ucciso dai suoi stessi senatori che temevano il suo eccessivo autoritarismo. Gli fu eretto un tempio sul Quirinale, il suo nome mutò in dio Quirino.

Lei rimase sola e con il suo pianto impietosì Giunone, la quale le mandò Iride, la dea dell'arcobaleno. Fu accontentata: con il bagliore di una stella raggiunse il suo sposo.

Così Ersilia/Hora fu per l'eternità la sposa di Romolo/Quirino.

E. L.

mercoledì 1 agosto 2012

La baby sitter tedesca

Anny 1895 - 1969

Siamo alla fine degli anni '50, una "signorina" di circa 65 anni viene a vivere nella casa dei miei genitori. E' tedesca, parla un buon Italiano con un forte accento nordico.

Occupa una bella stanza, mi ricordo il suo lettone sopraelevato, lo stanzino pieno delle sue cose.
Quando nacqui - lei non aveva figli - subito mi prese a ben volere ... mi chiamava "Il suo amore". Me la ricordo da sempre assieme ai tanti flash della mia infanzia: durante le feste metteva in bella mostra le statuine in ceramica di Biancaneve con i sette nani, una volta acquistò una coppia di galletti che lasciava scorrazzare per la sua stanza facendomi divertire un mondo.

Mia madre si dovette assentare per un lungo periodo - circa un anno; lei mi ... adottò (in un certo senso), avevo meno di quattro anni. Ogni giorno si inventava qualcosa per me: mettere in fila i tappi della birra - una volta in fila per tre, una volta in fila per quattro ... -, imparare canzoncine in tedesco che poi cantavamo insieme, insegnarmi a cucinare. E ogni sera mi regalava una caramella - me lo ricordo ancora: si chiamavano "lacrime d'amore" - poi ... dentifricio, pigiama e ... a letto, subito dopo Carosello.

Crebbi, le chiedevo perchè non si era sposata, mi raccontò del suo unico grande amore per un pugile; una volta mi fece vedere una fotografia dove il suo "fusto" l'abbracciava, con tanto di dedica ed autografo.
Crebbi, le raccontavo dei miei amori di bambino, lei mi accarezzava come una madre ... sì era una seconda madre. Le promisi che "da grande" l'avrei riportata nel suo Paese con una spyder rossa.

Mi amò da sempre per sempre.

Manrico Clarezo

mercoledì 18 luglio 2012

La compagna di ... classe

Frequentavamo la stessa classe del liceo, per cinque anni insieme, quasi ignorandoci. Poi la maturità e la preparazione per la prova di matematica assieme ad altri nostri compagni. Passavamo i pomeriggi tra uno studio di funzione e un integrale, ma scherzavamo e cominciammo a farci le nostre confidenze.

Lei si innamorò d'un mio amico ed avemmo così la possibilità di passare tante serate in compagnia, non perdendo occasione per parlarci. Il suo amore finì e per trent'anni ci perdemmo di vista. Trent'anni in cui accaddero tante cose.

Poi, per un puro caso, ci rivedemmo assieme a quella classe ormai di cinquantenni. Rinacquero i rapporti così a lungo interrotti. Riprendemmo i nostri discorsi così come allora li lasciammo, con la stessa confidenza, come se tutti quei decenni non fossero mai passati.

Mi colpì il suo spirito immutato, la sua generosità. Condividemmo tutto: la nostra passione per la storia, le nostre paturnie, la nostra voglia di raccontarci. Ha lottato una vita per difendere i suoi ideali, pagando prezzi esagerati. Mille volte è caduta ed altrettante è riuscita a rialzare la testa. La perdita dei nostri padri, la dolcezza e la dedizione con cui si prende cura della madre, offesa dall'inclemenza delle cose della vita.

Adesso ci incontriamo spesso, ci scriviamo dieci volte al giorno. Mi coinvolge nelle sue mille cose: le ricerche per un suo nuovo libro, la preparazione di una conferenza per la sua associazione culturale, la riparazione dello sciacquone del bagno di casa sua ... E non ha perso il suo entusiasmo da ragazzina con ancora tutta la vita davanti.

Grazie Paola!      

di Marco Ricalzone

lunedì 16 luglio 2012

La bimba di Anzio

1° ottobre 1958 - 30 agosto 1972

La conobbi da sempre, abitava nel palazzo ove ero nato. Cicciottella, capelli neri e lisci, un visino d'angelo. Aveva la mia età. Giocavamo insieme quando i genitori ce lo consentivano. Andavamo nella stessa scuola, ma eravamo in sezioni differenti - allora erano rare e malviste le classi "miste".


L'estate la passavamo insieme ad Anzio; una sua zia aveva una pizzeria al taglio e ci ospitava nella sua bella casa. Dormivamo insieme le notti d'estate ... ma anziché riposare, passavamo ore e ore a parlarci, a raccontarci di noi. Ridevamo commentando le cose buffe che ci capitavano, parlavamo di quanto i nostri genitori erano amici, prendevamo in giro i nostri fratelli maggiori.


Il Natale era una festa: aspettavamo l'arrivo di Babbo Natale e ogni volta giocavamo per scoprire chi fosse in realtà: mio padre o il suo? E poi, io giocavo con le sue bambole, lei con i miei trenini. Tutto era condivisione, gioco, ironia.

Arrivarono le scuole medie, nacquero discorsi diversi tra noi due ... I genitori ci osservavano - lo scoprii più tardi - e con la massima discrezione evitavano di farci dormire insieme ... però mi ricordo i baci che ci davamo di nascosto e le carezze. Le frasi carine. La complicità. Le risate.

Poi l'inverno gelido della fine d'una estate di quarant'anni fa. Finì tra le mie braccia; sua madre me la lasciò baciare per l'ultima volta.

(Marco Ricalzone)

mercoledì 15 febbraio 2012

Donata Di Maulo... una Donna (mia nonna)

Casaline di Preturo (AQ) 24/3/1895 - Roma 29/11/1994

Donata nasce in una famiglia contadina in una minuscola frazione di abituri sperduta tra i monti d'Abruzzo: prima figlia femmina di dodici fratelli, di cui però soltanto cinque sopravvivranno all'infanzia... anche lei di salute piuttosto cagionevole, si ammala spesso e più volte sembra sul punto di non farcela... ottiene però la licenza di terza elementare meritando una medaglia d'oro per l'ottimo profitto dimostrato... purtroppo non le sarà consentito proseguire oltre gli studi: la scuola più vicina si trova all'Aquila e non esistono collegamenti di sorta. Di costituzione esile e delicata si dimostra poco adatta a svolgere quelle mansioni che nella realtà contadina vengono all'epoca riservate alle donne: anche portare sulla testa la pentola con il pasto caldo per i braccianti risulta per lei una fatica insopportabile. Le vengono pertanto affidati i lavori di casa, la tutela dei fratelli minori e la gestione della tabaccheria di famiglia, una delle poche bottegucce dell'abitato. Per le compaesane, per lo più analfabete, diventa presto un punto di riferimento importante: tutte si rivolgono a lei per comunicare per iscritto con i figli, i fidanzati o i mariti immigrati oltreoceano, più tardi anche con tutti gli uomini impegnati sul fronte della Grande Guerra. Di tutte diventa la confidente fidata e conosce gli amorosi tormenti mentre lei, in quell'ambiente rozzo e ristretto, stenta a trovare un compagno adeguato. Infine, già ventisettenne, sposerà il bel Luigi, che insieme ai fratelli minori ha impiantato una delle tante imprese di costruzioni che nei primi decenni del Novecento stanno erigendo Roma Capitale... i novelli sposi si trasferiscono a Roma in una casetta di Città Giardino, a Montesacro, dove mio nonno, uomo di poca cultura ma di modi gentili e ancor più nobili intenti, fantastica la costruzione di quartieri operai dotati di servizi e conforti alla stregua dei dettami dei Socialisti Utopisti. Ma il loro idillio avrà vita breve: un attacco di peritonite non diagnosticata metterà prematuramente fine alla vita di Luigi; mio padre figlio primogenito e unico, ha appena sei mesi. Segue un tristissimo periodo in cui Donata si vede costretta a convivere con i cognati e con il suocero in un casolare di tipo rurale ai margini della periferia romana, sono anni terribili in cui lei, venuta a perdere la fonte di sostentamento diretto, svolge la vera e propria funzione di massaia, prendendosi cura di uomini e animali e assicurando così la mera sopravvivenza a se stessa e al figlioletto. All'età di sei anni mio padre, giocando con un residuato bellico inesploso, dissotterrato nei pressi del casolare, perde la mano e parte dell'avambraccio sinistro... l'incidente segnerà la fine del periodo romano. Donata è determinata a cercarsi un lavoro autonomo, solo così potrà evadere dal pesante giogo familiare e assicurare un'istruzione adeguata al figlio, ormai tagliato fuori per la sua invalidità dallo svolgimento di qualsiasi attività di tipo manuale. Attraverso i Patronati dell'Opera maternità e infanzia che gestiscono Istituti di accoglienza e istruzione per orfani troverà una prima occupazione come cuoca a Morolo poi, avendo qui ricevuto trattamenti lavorativi prossimi allo schiavismo, riparerà in una Istituzione analoga ad Arpino. Dai cognati, intanto, le è stata negata la liquidazione richiesta per le spettanze dell'erede minore; contro di essi Donata intenterà una annosissima causa legale che si concluderà in termini per lei moralmente tanto deludenti da voler rifiutare completamente la pur cospicua somma che infine le sarà riconosciuta. Ad Arpino comincia un'esistenza più serena in un'ambiente più aperto e vitale, lei non si fa abbattere dalla durezza del lavoro, fa fruttare al meglio le scarse derrate alimentari a sua disposizione, spesso compie miracoli in cucina. Allo scoppio della seconda guerra mondiale però l'Istituto chiude i battenti ma Donata ancora una volta non si perde d'animo: rileva brande e suppellettili, prende in affitto una grande casa dove allestisce una spartana pensione per studenti: Arpino è cittadina che vanta un gran numero di Istituti scolastici di ogni ordine e grado, è sede di un Convitto Nazionale che è un polo di attrazione per l'intera Ciociaria e parte della Campania, non tutti però trovano posto come Convittori e sono ammessi a frequentare l'annesso Liceo Tulliano soltanto come studenti esterni... I ragazzi pertanto cercano alloggio in paese e vengono accolti in una severa ma attenta atmosfera familiare. Donata in qualità di vice mamma si occupa sovente anche dei colloqui con gli insegnanti: vigila, consiglia, media, contratta, aiuta, cura, cucina, rassetta e racconta... La durezza del periodo bellico è meno pesante per i civili di provincia... i rari episodi in cui si viene convolti in prima persona, per principio di sopravvivenza, non si vollero mai raccontare, si preferì osservare il silenzio. Mio padre intanto ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso la Sapienza di Roma e si è fidanzato con un'Arpinate, anch'essa laureata e già lavoratrice. Nel dopoguerra convulso e confuso mio padre compie qualche tentativo di pratica avvocatizia, studia per sostenere l'esame da Procuratore, infine, con qualche ritardo, abbandona l'idea della libera professione per ripiegare su un lavoro dipendente nel parastato. La sede in primo momento è Parma, poi già da sposato, arriverà il trasferimento richiesto: si torna a Roma. E' il 1957. La casa di Arpino sarà riconsegnata al proprietario, io sto per nascere, da ora in poi nonna abiterà con noi e con noi resterà fino alla fine dei suoi giorni. Accudirà i suoi nipoti, io e il mio fratello Luigi... sarà lei, nel nostro particolare assetto, il vero capofamiglia... prima e dopo la morte precoce di mia madre - lavoratrice da sempre - sarà comunque lei che si assumerà anche tutte le mansioni tradizionalmente assegnate ad una mamma. Donata vigila, consiglia, media, contratta, accompagna, aiuta, cura, cucina, rassetta e racconta... Anche negli ultimi tredici anni vissuti nell'invalidità parziale per i postumi di un ictus conserverà lucidità mentale e la maggior parte di queste mansioni. Nonostante i cicli generazionali notevolmente dilatati nel tempo avrà la soddisfazione di stringere tra le braccia mio figlio e anche a lui di narrare le sue fole. Quasi centenaria morirà nel suo letto, come aveva sempre desiderato, lasciandomi la straziante e insieme dolcissima incombenza di pettinarle per l'ultima volta la sua lunga treccia che mai aveva voluto tagliare.

di Rosamaria Francucci

martedì 10 gennaio 2012

Il ritorno

Nuclei di acciaio, uomini di ferro?A volte mi sembra più difficile essere di carne e di sangue
da “Pensieri spettinati” di Stanislaw LEC -editore Sonzogno

…da un lato il compagno sviluppa al massimo i valori pratici di solidarietà, eguaglianza, resistenza all’oppressione, allo sfruttamento che costituiscono l’orizzonte concreto del superamento dell’atomismo individualistico e dell’egoismo capitalistico, prefigurando così l’unico possibile comunismo. Dall’altro il militante filtra questi valori in forma organizzativa di tipo inevitabilmente ecclesiastica e militare, in cui la fedeltà è più importante della libertà di pensiero. La dedizione alla causa conta più della coscienza critica. La testimonianza quotidiana della propria fede pubblicamente (od intrinsecamente-ndr) dichiarata, pesa molto di più della capacità d’innovazione pratica e teorica…il nesso (indissolubile-ndr) militante-compagno…ha connotato storicamente l’esistenza concreta della figura antropologica centrale del comunista storico novecentesco…
da “Il tempo della ricerca” di Costanzo Preve –Vangelista ed. Milano 1993

R ampa Brancaleone. Una scalcinata scalinata settecentesca vicino San Pietro, che salendo porta ad uno spiazzo con quattro palazzoni popolari, dalle finestre grandi e con l’intonaco che cade a pezzi. Salnitro ed erbacce tra il marmo consumato dei grandi scalini dove ci si può sedere, come su un sedile. La strada sottostante è Via delle Fornaci. I palazzi si stagliano contro il cielo di Roma e guardano la cupola di San Pietro: il Cuppolone. Dice così, familiarmente, con affetto e con due P, il popolino romano. Edifici di quattro piani, come naufraghi in un mare di benessere ostentato e pacchiano, contraddistinto dall’edilizia volgare, ma soprattutto brutta, dei bottegai e speculatori (i ripuliti nel gergo romano) miracolati dall’economia degli anni ’60. Uniche abitazioni sopravvissute delle molte in cui quelli che popolavano allora la zona si buttavano a dormire esausti, dopo 16 o 18 ore di lavoro ( se di lavoro si può decentemente parlare)i fornaciari, tra cui molti erano i bambini e le bambine che non arrivavano ai 10 anni, che nei forni sempre accesi, come l’Inferno, delle vicine fornaci (ora diventate, per lo più, residence di lusso e Centri Commerciali) impastavano ed infornavano mattoni e tegole e ne ricevevano in cambio sopravvivenza stentata, silicosi e figli da avviare ad un destino segnato ed immutabile. Tanta fatica e stenti per appena rimanere in vita. Laterizi per il vicino Vaticano, le cui statue di santi ed i marmi pregiati delle chiese e dei palazzi curiali e cardinalizi ignoravano di quanta fatica, miseria e sofferenza fossero impastati i manufatti che li preservavano dalla pioggia, e del resto a voltare la faccia di là non erano certo i soli. Ignoravano anche i pii ed abituali frequentatori, zelanti di messe, vespri e novene, solerti di ogni rosario e qualsivoglia funzione in cui si celebrasse la bontà del Creatore. Mattoni e tegole anche per il prospiciente quartiere chiamato Cavalleggeri, causa l’acquartieramento di uno squadrone di cavalleggeri, verso i fornaciari vere e proprie carogne e persecutori. Ahimè un male necessario che, del resto, la miseria a volte non è rispettosa dell’ordinato vivere, diventa talvolta irragionevole, è portata ad esagerare e si lamenta troppo, anche astiosamente, e va rimessa al suo posto, quando è il caso.

Gendarmi a cavallo ed operai. Controllori e controllati: una coppia inscindibile nella Roma papalina del Papa Re dapprima ed in quella piemontese del Re Buono poi. Un lavoro bestiale per tutti e due: fornaciari e gendarmi a cavallo. Eseguito con un sovrappiù da carogne senza scrupoli quello delle guardie a cavallo, forse per il timore di cadere nella prospiciente vita di stenti, stracci e fornaci che periodicamente loro bastonavano.

Marisa mi viene incontro scendendo gli scaloni della scalinata. Corti ricci rossi. Occhi azzurrissimi in cui potrei annegare e gli orecchini che le ho regalato io. Ed il suo sorriso che mi fa stare bene. Subito. Mi guarisce il mal di vivere solo a guardarla. La gonna severa ed il tailleur grigio. Significa che va a dare una lezione di pianoforte. Le sue labbra morbide ed il profumo di patchouli. La pressione dolce del seno nell’abbraccio. E…sto bene. Non sento più la stanchezza del turno di notte nell’albergo a cinque stelle dei Parioli. Commesso addetto al maneggio dei soldi italiani ed esteri, recita pomposamente la mia qualifica. In realtà contribuisco a taglieggiare i turisti, con un cambio che…lasciamo perdere! Indirizzandoli poi a tassisti, negozi di moda e ristoranti di lusso che finiscono di spogliarli, completando il lavoro. Ci siamo conosciuti durante un torneo di scacchi organizzato da un Circolo Culturale di cui Marisa è co-fondatrice. Lei aveva degli occhialini severi su un fisico che non lo era. Tutti i maschi presenti le ronzavano intorno, facendole una corte educata ma serrata. Io, che ero venuto solo per giocare a scacchi, no. E’ stato questo che l’ha attratta. Come mi ha poi confidato. Ed allora decise di farmela lei, la corte. Così, per curiosità e dispetto. Io, appena la vidi, provai un conosciuto brivido freddo alla schiena. Il solito. Guai in arrivo. Però, posso dire, con legittima soddisfazione, che per uno come me che aveva giurato a se stesso di darsi cioè defilarsi, sempre. E di non farsi coinvolgere mai, perché, eccola! Una piccolo-borghese se ce ne è una! E per di più con una figlia adolescente ed imbronciata che pare stia lì lì per vomitarmi addosso, ed una madre con veletta (oddio! allora esistono ancora!) che mi guarda con indignazione, pronta a gridare allo stupro se mi avvicino di più alla figlia. O forse ritiene che ho esagerato con i salatini al tavolo del rinfresco? E naturalmente corredata da amiche scrutanti e con la puzza sotto il naso…ebbene ho resistito tanto. Quasi mezzo pomeriggio. Compreso il thè verde biologico. Lo detesto ma, eroicamente, l’ho sorbito. Tutto. Con un sorriso ebete stampato sul viso. A casa sua, dopo il Torneo. Dovevo invece allarmarmi, considerato che aveva spedito Perla, risponde a questo nome la disgustata dal mondo nonché sua figlia, dalla nonna con veletta. Eppure…è stato (lo è ogni giorno che passo con lei, ancora adesso mi viene voglia di cantare al solo guardare il suo spazzolino accanto al mio) bellissimo. E coinvolgente. Per me che fino ad allora vivevo in apnea. Ed in bianco e nero. Una esplosione di colori. Naturalmente un minuto dopo ha cominciato a ristrutturarmi. Dal come mi vesto: Tutti questi colori neri, anzi proprio incolore, da ipermercato, molto ordinario. Al fatto che :Non ti valorizzi come potresti. Troppo zitto e soprattutto anonimo. E pensare che per essere anonimo ci metto tanto impegno! Ed ancora: Sei così timido da rasentare l’arroganza. Tu guardi tutto, no carino, non dire no, a me non la fai. E non dici mai niente! Testuale. Mentre lei gira completamente nuda per casa. Il seno pesante e la curva dei fianchi. I miei occhi e le mie coronarie stanno facendo a gara a chi esplode per primo. Ogni tanto guardo la porta inquieto, ho paura di una irruzione di carabinieri aizzati dalla madre urlante ed indignata e dalla figlia ancora più ingrugnata! Ma lei è così solare e di una naturalezza elegante e disinvolta anche così: senza vestiti, che…ancora adesso trovo del tutto naturale che sia tanto corteggiata. Ma per me il suo fascino maggiore è che non si sogna neanche lontanamente di far politica. Le ho regalato la mia cosa più preziosa: un poster di Audrey Hepburn nel film Colazione da Tiffany. Originale. L’ho custodito gelosamente e miracolosamente in tutti questi anni. Mi ha chiesto, colpita: Perché? Ho risposto: Tanto ho l’originale in carne ed ossa!. Mi ha guardato e poi riguardato. Molto a lungo. E senza dire niente. Quello sguardo me lo conservo per i giorni più neri, gelosamente, dentro di me. E pensare che quando qualcuno mi guarda più a lungo, mi salta la mosca al naso!

Mi guarda anche adesso su questa scalinata inondata dal sole, nel centro di Roma:

Sorpresa! c’è un tuo amico torinese di passaggio da Roma che ti sta aspettando a casa. Sei contento amore mio solitario?Come? Da un po’! Certo, l’ho fatto accomodare in biblioteca, che in salotto…un disastro, Perla e le sue amiche…indescrivibile, non ho parole e tu che hai insistito per farle fare la festa a tutti i costi…quando ritorna da scuola facciamo i conti…che devo fare con voi due?...comunque il tuo amico, che persona fine e distinta! si è tanto scusato d’essere venuto senza preavviso, ma voleva tanto farti una sorpresa, una improvvisata. E’ tanto che non vi vedete mi ha detto,e non me ne stupisco, un po’ orso lo sei amore …certo che mi sono fidata, si vede subito che è un professore, anche se non me l’ha detto. Pensa abbiamo parlato di tecnica pianistica, di digitalizzazione dei tasti…sai cosa insegna? Per caso è un pianista anche lui? Le mani ce l’ha! con quelle dita lunghe e le unghie curate! Io per non sembrare indiscreta non l’ho chiesto. Gli ho servito solo un caffè. Non ha voluto altro. Nel caso: in frigo ci sono il resto dei pasticcini della festa ed i tramezzini, vedi tu…

Un brivido freddo nel centro della schiena! Ahi! Troppo bello per durare! Non ho amici professori, né reali o supposti, tanto meno torinesi. Anzi, non ho proprio degli amici. Ho scelto così. Solo conoscenti. Buongiorno e buonasera. Mi sono abituato al silenzio. Non potrei farne a meno. Un po’ l’abitudine alla sicurezza, un po’ la scelta: mi piace! E ne ho scoperto i vantaggi. E’ comodo. Non ti devi ricordare le parti che interpreti. Sono impallidito e ho paura che se ne accorga. Lei va di fretta ed è meno attenta del solito, per fortuna. Continua:
- Senti: la vai a prendere tu Perla a scuola? Lo sai che le fa tanto piacere. E ti chiama papà, lei lo sa che ti piace e che poi ti pavoneggi. A me…non mi chiama mamma da un pezzo, no non va bene, per niente, non mi piacciono queste mode di chiamare i genitori per nome. Io? devo andare, ho una allieva nuova, forse mi trattengo un po’ di più, per un thè e qualche chiacchiera, certo tengo in allenamento il mio inglese. E’ arrivata da poco a Roma…si è del solito giro diplomatico. Aspetta. Come dici tu? La cricca imperialista! Ma perché ce l’hai sempre con gli americani? Va bene: statunitensi, come dici tu, amore mio pignolo? Se c’è un popolo aperto alle novità! Un giorno me lo spiegherai? A proposito, non ti scordare. Il mio Yogurt naturale con i fermenti attivi sta nel pensile bianco, al lato del frigorifero. Devi levare il panno che lo copre e metterlo in frigo. Ma che spiritoso è l’amore mio oggi: certo lo Yogurt e non il panno! Non come l’altra volta che l’hai lasciato fuori ed è andato a male. E non sbuffare, farebbe tanto bene anche a te, come per esempio smettere di fumare. A proposito, Perla deve fare la versione di latino che le ha dato mamma, altrimenti questa volta le restituisce i soldini. Fai l’impopolare qualche volta anche tu, papà. E vedi che mentre studia non accenda la Tv o la radio, magari insieme, come è solita. Con quella orrenda musica tecno che da un po’ ascolta. Solo per farmi dispetto. Già tu le prendi sempre le parti. Da quando ha preso a chiamarti papà. E non ridere, io prima o poi quella radio che le hai regalato la getto nella spazzatura, siete avvertiti, tutti e due. Che faccia hai…sto diventando un po’ nevrotica, amore mio?

La guardo in controluce. E’ con il sole alle spalle ed il marmo secolare e consumato intorno. In questa aria tersa romana che ricopre tutto di classicità. Un dipinto preraffaellita. Ed, ahimè! temo di sapere chi sia l’amico torinese di passaggio da Roma che ci ha tanto tenuto a farmi una improvvisata! E ci è riuscito! Maurizio è uno che non rinuncia tanto facilmente, malgrado i tanti no che gli ho mandato a dire tramite i suoi emissari.

Cesare Prudente

lunedì 5 dicembre 2011

Marcella dell'Aventino - Roma IV-V secolo

Marcella è una donna romana, morta in età matura in seguito alle violenze subite durante il sacco di Roma del 410.
Come spesso è accaduto, la storia ne ha cancellato gli scritti, ma non ha potuto eliminare le sue tracce: la sua memoria è conservata nelle risposte date alle sue lettere da una massima autorità della chiesa, Girolamo (epp. 23-29; 32; 34; 40-44; 59; 97; da Paola ed Eustochio: 46; a Principia, in memoria: 127).
Anche così, cioè solo indirettamente, la figura di Marcella emerge con una autorevolezza assoluta, e le risposte di Girolamo risultano quindi molto più potenti di qualsiasi encomio.
Marcella è animatrice di un gruppo (frequentemente denominato Circolo dell’Aventino dal luogo in cui si riunivano): soprattutto donne, ma anche alcuni uomini che si riunivano per leggere e commentare la Bibbia. Capita sovente di leggere che sarebbe stato fondato da Girolamo, ma non è così: egli stesso infatti racconta (ep. 127) che mentre si trovava a Roma insieme a due vescovi, era stato avvicinato da una certa Marcella che, insistendo, l’aveva convinto a partecipare alle loro riunioni e a portare il contributo della sua conoscenza biblica.
Dunque l’iniziativa è di questa donna, vedova, che viveva insieme alla madre in una casa sull’Aventino. Molti i nomi di donne coinvolte nell’iniziativa, primo fra tutti quello di Paola e di una delle sue figlie, Eustochio. Girolamo deve difendersi dall’accusa di perdere tempo con delle donnette! Sempre dalle stesse lettere sappiamo che quando si incontravano pregavano i salmi in ebraico e leggevano e commentavano la Scrittura confrontando le versioni latina, greca ed ebraica. Una conferma di questo viene proprio dalle risposte a precise domande di Marcella («non si arrendeva mai – scriverà in seguito – alla prima risposta…») che riguardano passi o termini difficili, presi, appunto, sia dal greco che dall’ebraico.
Riusciamo così a sapere che il tremendo Girolamo ne aveva un po’ soggezione: in una lettera (ep. 29) si scusa perfino di essere arrugginito nello stile latino e di essersi espresso in modo non adeguato alla sua corrispondente. Un dettaglio poi è di estremo interesse: mentre inveisce con la consueta verve polemica contro alcuni che lo criticano (ep. 27), interrompe improvvisamente il racconto e scrive: «sono certo che mentre leggi queste cose corrughi la fronte in segno di disapprovazione e se fossi qui mi metteresti le dita sulle labbra per farmi chiudere la bocca e non farmi dire queste cose». Segno che Marcella non si comporta come una devota sottomessa e silenziosa.
Questi tratti appaiono coerenti con i particolari biografici: ad esempio, con la risposta addirittura sfrontata con cui Marcella dissuade un ricco e vecchio pretendente; e ancora con quanto sappiamo da una lettera che le scrivono da Betlemme Paola e la figlia. Le due erano profondamente affezionate a Girolamo e avevano deciso di seguirlo in Palestina, per vivere là insieme l’ascesi, la preghiera e lo studio della Scrittura. Marcella non va: ha iniziato a Roma, resta a Roma. Allora le amiche, secondo qualcuno su suggerimento o addirittura dettatura di Girolamo, tentano di persuaderla (ep. 46), confermando il suo ruolo di iniziatrice: «noi tue discepole, tu la maestra», «quando ancora il nostro desiderio era incosciente tu ne hai fatto sprizzare la scintilla, ci hai stimolate con la parola e l’esempio, ci hai radunate come una chioccia i pulcini». Ancora, affastellano citazioni bibliche per convincerla, ma poi si scusano: «dirai che le citazioni non sono fatte nel giusto ordine». Marcella non ha bisogno di spostarsi: il suo deserto è a Roma, anche lì c’è il Regno di Dio, anche lì si può vivere nella chiesa (ep. 127). L’autorevolezza di Marcella è testimoniata ancora in un altro passo di Girolamo (ep. 127), scritto successivamente alla morte di lei: quando lui era ormai assente da Roma «se sorgeva qualche disputa a proposito di un testo della Scrittura, si ricorreva al suo giudizio». Allora Marcella, interpellata, rispondeva, ma senza dire che l’opinione era sua ed attribuendola invece a Girolamo stesso o a qualche altro: certo, perché così mostrava quello che dobbiamo essere nei confronti della Scrittura, cioè discepoli e testimoni, non maestri. Ma anche, nota con finezza Girolamo, «per non umiliare il sesso virile e i sacerdoti che l’interrogavano», forse poco propensi a farsi discepoli di una donna.»
La sua morte è legata agli eventi drammatici del 410, quando Roma viene prima assediata, poi saccheggiata dai soldati di Alarico. Girolamo, in particolare, percepisce questo fatto come segno di un crollo epocale. Come in tutte le guerre alla devastazione si accompagna il furto e alla rapina lo stupro. In casa di Marcella, ormai anziana, vive una ragazza giovane, Principia, destinataria della lettera 127 In memoria. Quando i soldati arrivano vogliono i soldi e soprattutto la ragazza. Marcella si mette in mezzo, la difende: le picchiano tutte e due ma poi le lasciano andare. Dopo breve tempo, però, Marcella muore.

Cristina Simonelli

Voce pubblicata nel progetto Enciclopedia delle donne
http://www.enciclopediadelledonne.it

Cristina Simonelli
È nata a Firenze (1956). Docente di teologia patristica (Studi teologici San Zeno e San Bernardino a Verona e Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale a Milano) e socia del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI). Fa parte della redazione di «Esperienza e Teologia» (Verona), e «Evangelizzare» (EDB).

giovedì 24 novembre 2011

Silvia Bernardini

101 donne che hanno fatto grande Roma. Finalmente un libro che racconta le donne, ho pensato. Inizia dalle più conosciute, è normale. Dalle donne che la storia ufficiale ha avuto la benevolenza di far sopravvivere a Cesare, Garibaldi, o ad uno dei settecentomila papi di Roma. Tutti maschi. Una storia a ‘sesso unico’ più che a ‘senso unico’.
Poi mi è stato chiesto di scriverne una da aggiungere alle 101 precedenti. Due considerazioni mi frenavano. Può un uomo raccontare una donna? Se è lui a raccontarla, continuerà a non avere una voce propria! Avevo anche un’altra resistenza. Non solo la ‘Storia’ è riservata ai maschi, ma spesso si occupa esclusivamente delle gesta dei così detti ‘grandi’. Delle persone comuni nei libri non c’è traccia. Ma “Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Sono stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?”. No di certo. E’ ovvia la risposta al quesito retorico posto da Brecht. Sono state le persone comuni.
Di recente sono stato ad una manifestazione. C’erano molti giovani. Tra loro migliaia di ragazze. Scese in piazza per far somigliare il mondo ai propri sogni. Come Silvia quel giorno. Il 12 Maggio 1991. Era un corteo di commemorazione per Giorgiana Masi. Durante la manifestazione ci fu un po’ di tensione, ma nessun incidente. Ripensavo a lei guardando i volti delle ragazze. I dubbi sulla donna da raccontare si dipanarono. Avrei scritto un episodio della sua breve vita. Lo avrei fatto con le sue parole, che venti anni prima le avevo chiesto di scrivere. La storia la fanno le persone come lei. Coloro che non sanno di farla. Chi lo diceva? Tolstoj?
Magari Silvia lo aveva letto! Studiava all’università. Si interessava di letteratura, di politica. Voleva anche lei un mondo diverso. Era intelligente. Un po’ introversa, ma solo ad un primo impatto. Schiva, ma sempre sorridente. Di una bellezza particolare. Non accettava di omologarsi neppure su quel piano. Aveva i capelli rossi. Non proprio rossi, color rame. Esile. Uno sguardo disarmante che ti arrivava diretto, anticipando lo stupore per il colore azzurro degli occhi. Aveva sempre tra le mani un numero di Dylan Dog.
Quando la incontrai all’università, sulle scale della facoltà di Lettere, era da un po’ che non la vedevo in giro.
«Ciao. Finalmente ti rivedo. Sei scomparsa? »
«Non hai saputo niente? »
«Di cosa? Cosa avrei dovuto sapere?»
«Mi hanno fermata dopo il corteo per Giorgiana Masi. Mi hanno riempita di botte. Sono stata malissimo. Mi sono chiusa per un po’ in me stessa»
Sono rimasto sbigottito. Era introversa. In fondo non ero neppure il suo migliore amico. Le sue parole erano flebili, tremolanti. I suoi occhi si nascondevano al mio sguardo. Pensai che la sua inaspettata confidenza nascondeva il desiderio di raccontare quanto le era capitato di vivere.
«È una cosa orribile. Dovresti farlo sapere pubblicamente. Devi liberarti in qualche modo».
«Si ma non ho voglia di sporgere una denuncia alle stesse persone che mi hanno fatto male. E poi non voglio espormi».
«Hai ragione. Ti propongo una cosa. Sto per far uscire un libro di poesie contro la guerra del golfo. Potresti scrivere quello che ti è successo. Il libro sarà anonimo. È un modo per far sapere. Non comparirà il tuo nome».
«Si. Così mi va. Ho bisogno di farlo».
Non passò neppure una settimana. Mi consegnò le pagine con il suo drammatico racconto. Lo lessi tutto d’un fiato.
“Ogni volta che ripenso a quello che è successo a me e ad altri due compagni qualche mese fa, non posso non sentire una specie di nodo allo stomaco che mi stringe e un senso di rabbia che mi sale dentro e che vorrebbe  esplodere, come quel giorno appunto.
Tornando dal corteo io e gli altri due compagni risalivamo una via insieme a molti altri ed eravamo neanche seguiti, ma praticamente circondati da uno smisurato schieramento di forze dell’ordine. Polizia armata fino ai denti, minacciosa e provocatoria e tantissima polizia politica naturalmente. Mentre camminavamo ci sono stati battibecchi, cose da poco, tra il nostro gruppo e i poliziotti di un blindato. Ad un certo punto abbiamo notato una macchina con dentro quattro elementi della polizia politica che sembravano guardarci con particolare attenzione. Sarà un’impressione, ci saremo sbagliati pensiamo, un po’ di paranoia. Alla fine della via li vediamo fermarsi a parlare con un altro elemento della polizia politica che conosciamo bene, un habitué dell’università, delle nostre facoltà quotidianamente e intensamente presidiate, controllate. Ci indica poi non li vediamo più. Alla stazione incautamente prendiamo l’autobus. È al capolinea e su quelli accanto salgono altri compagni. Ci sentiamo tranquilli, ma stranamente quegli autobus partono tutti prima del nostro e a un certo punto ci accorgiamo di essere rimasti soli, circondati solo da estranei. Sapremo poi che i quattro della polizia politica che avevamo visto a via Cavour ci stavano cercando sugli altri autobus e non avendoci trovati, li avevano lasciati partire, mentre avevano fermato il nostro.  È un attimo, appena il tempo di capire la situazione e i quattro della polizia politica salgono sull’autobus.
«Tu, tu e tu» fa uno piccolo e tozzo.
Cerchiamo di prendere tempo, ma un altro alto e grosso con dei guanti di pelle nera ci prende chi per un braccio chi per un orecchio. Ci fanno scendere. I bastardi si presentano subito: schiaffi, spinte, lì di fronte al capolinea, mentre i presenti, gli estranei, guardano incuriositi e basta. Non una parola, non un sussulto. Ci portano alla macchina parcheggiata poco distante, vicino ad alcune lamiere e cominciano. Sono schiaffi, fanno male, ma forse meno delle parole, degli insulti di quei bastardi. Quello con i guanti è il più eccitato.
«Stronza, zecca – mi dice – l’hai mai preso il cazzo a mestiere troia?» e giù una marea di sputi in faccia.  Ci fanno una vera doccia di sputi.
«Siamo fascisti – ci dicono e sembrano usciti da un manuale degli anni ’70 sull’agente di polizia politica modello – le zecche come voi le schiacciamo» e giù schiaffi, spinte, soprattutto sui due compagni.
Non ci spiegano nulla. Inutile chiedere, domandare, le risposte sono solo botte, insulti. Mi giro perché vedo uno dei quattro che prende a capocciate un compagno ed allora quello con i guanti mi prende la faccia e mi sputa a mezzo millimetro, mi continua a stringere e poi di nuovo «troia, gettone, mi ti inculo, ora vedi cosa ti succede».
Mi sento morire per la rabbia, l’impotenza. Non puoi parlare, non puoi reagire, si accaniscono sempre di più. Vedo i compagni con le facce rosse gonfie, il dolore che diventa rabbia: bastardi.
«Ci tiravate sassi al corteo, vi abbiamo visto - ci dicono – adesso conoscerete la galera, questa volta avete chiuso».
Intanto arriva anche una macchina della polizia. A me e ad un mio compagno ci caricano su questa, l’altro su quella della polizia politica e se almeno per noi due il tragitto fino al commissariato è relativamente tranquillo, per lui, solo con quei bastardi, non è così. Ma il peggio doveva ancora arrivare e immaginavo che sarebbe arrivato al commissariato, dove tutta la loro peggiore brutalità fisica e verbale avrebbe potuto avere libero sfogo lontano da qualsiasi occhio indiscreto. Pensavo questo in macchina, mentre sentivo dentro di me anche la paura, ma soprattutto tantissima rabbia, un disperato senso d’impotenza perché ad ogni reazione erano botte, insulti, perché vogliono solo umiliarti, metterti in uno stato di tensione assurda, farti sentire una merda; ma neanche per un istante volevamo dargli questa soddisfazione ed allora ostentavamo indifferenza e loro si accanivano, li irritava. Cercavano a ogni costo la nostra reazione per avere un pretesto, per poterci trattenere, perché loro, nonostante quello che dicevano, non potevano arrestarci senza un motivo e noi questo lo sapevamo bene.
Arrivati al commissariato siamo entrati in una stanza e ci hanno fatti mettere contro una parete a vetri. Sono arrivati, oltre ai quattro, altri elementi della polizia politica che hanno cominciato a spingerci e a prenderci a calci. Erano una decina. C’era una donna. Stava da una parte, ci guardava con disprezzo, non diceva nulla, non ho potuto fare a meno di guardarla a lungo. L’ho odiata forse più degli altri che ci picchiavano. Come poteva, essendo una donna oltre che guardia, non sentirsi ferita, non dire nulla di fronte a quello che mi veniva detto soprattutto da quel bastardo con i guanti.
«Io mi ti inculo, ora lo vedi che ti succede. Quando vai in carcere tu vieni in macchina con me; l’hai mai visto il cazzo di un poliziotto? È grosso come un manganello non come quello dei compagnucci tuoi».
A quel punto non ce l’ho fatta più a sentire i suoi insulti.
«Fai schifo», gli ho detto, o qualcosa del genere e allora s’è sfogato a schiaffi, a calci; mi faceva male alla testa che ad ogni schiaffo sbatteva alla porta a vetri. Poi ha cominciato a passarmi la sigaretta vicino alla faccia ed a tirarmi la cenere sul viso continuando.
«Troia, puttana, l’hai mai preso il cazzo a mestiere?» ed al mio istintivo spostarmi ancora botte, spinte. Così ed anche peggio per i due compagni.
Capocciate, teste sbattute sulla porta a vetri, schiaffi, dieci contro tre i bastardi. Ad un certo punto portano un compagno in un’altra stanza. Sentiamo schiaffi, strilli, quella pressione allucinante che ti fanno spingendoti in continuazione, urlando; ci giriamo istintivamente verso la stanza, ma ogni volta che proviamo a voltarci, a vedere, ci arriva uno schiaffo, e intanto ridono questi schifosi bastardi. Quando riportano il compagno, quello con i guanti sembra più eccitato, prende le teste dei compagni e le fa sbattere sulla mia che sto in mezzo. Sto male, cerchiamo di tranquillizzarci a vicenda; stringo il braccio del compagno vicino, lui la mia mano. Sembra che quest’incubo non passi mai. Ad un certo punto entrano dei poliziotti. Tornano dal corteo. Sono esagitati, carichi.
«Questi vi tiravano i sassi al corteo» insistono i quattro che ci hanno fermato, e i poliziotti uno per uno, passandoci davanti e poi tutti insieme a semicerchio davanti a noi, ci sbattono addosso i caschi, ci prendono a calci, ci sbattono dovunque, soprattutto contro la solita porta a vetri. Li ferma un graduato.
«Ragazzi non facciamo i cretini» dice, e intanto uno della polizia politica ferma anche quello con i guanti che continuava a promettermi di tutto stringendomi la faccia e sbattendomi la testa.
«Vi stiamo trasferendo in carcere. Ora vedi quello che ti succede».
Pur sapendo che non avrebbero potuto arrestarci cominciavamo a preoccuparci ed alle nostre richieste di parlare con un avvocato ci rispondevano con un ‘dopo’ sarcastico, accompagnato dai soliti schiaffi. E poi sanno picchiare questi bastardi! Non lasciano grandi segni. Solo qualche livido che d’altronde uscirà troppo tardi anche per farsi refertare ad un pronto soccorso. Ma quello che mi fa più male sono quelle parole, quelle frasi, una rabbia indescrivibile e un’impotenza snervante, lancinante, la coscienza di essere  forse più vulnerabile perché ti colpiscono e ti feriscono in un modo in cui non si può ferire un uomo.
Ci perquisiscono in maniera molto rapida, sommaria. Mi levano un opuscolo che ho in tasca. Continuano assurdamente a ripeterci che abbiamo lanciato sassi, bastoni, contro i blindati, contro di loro. Continuano a ripeterci che stanno per trasferirci in carcere. Sento un senso crescente di angoscia dentro di me. Penso che di lì a poco sarò separata dagli altri due compagni e sarò completamente sola con quei porci bastardi. Comincio a pensare che almeno lì smetteranno di picchiarmi, ma prima? Quello con i guanti continua e ad un certo punto un pugno fortissimo arriva nelle costole di uno dei compagni. Lui si piega. Gli si spezza il fiato. Ci dicono di passare in un’altra stanza. E’ grande. Sembra un cinema. Si schierano ai lati polizia politica e poliziotti. Ridono i bastardi. Ci fanno passare in mezzo. E’ l’ultima razione di calci, botte, sputi, insulti. Quel breve passaggio sembra non finire mai. Ogni volta ti spingono addosso agli altri. Siamo storditi. Non apriamo bocca. In questa sala, dove ci sono anche altri fermati, ci fanno sedere lontanissimi l’uno dall’altro. Ognuno da solo con intorno 4 o 5 della polizia politica. Ancora ci tempestano di domande, di insulti.
«Perché stavate al corteo? Potevate restare a casa, ma voi fate politica, lo sappiamo bene, e far politica fa male al cervello, oltre che alle ossa»; soprattutto qui, dove critica, analisi, dissenso, sono un puro e semplice reato. Cerchiamo di non guardarli, cerco di non guardarli. Schifosi.
Il tempo non passa mai, è eterno. Ci dicono che loro sono al corrente di tutto, inutile negare quindi, qualsiasi cosa. E ancora silenzio, rabbia…vero, falso, non c’è più alcun confine, alcun limite appunto, il puro e semplice arbitrio, quello sempre impunito di chi detiene anche solo briciole di potere, o meglio di chi è semplicemente servo, braccio armato del potere.
Improvvisamente ci chiamano su una specie di palco che sta nella sala. Ci sono persone che battono a macchina, scrivono verbali; ci fanno leggere frettolosamente un foglio: è assurdo, ridicolo ‘i suddetti sono stati fermati dopo la nota manifestazione – c’è scritto – nulla è stato trovato a loro carico e perciò vengono rilasciati’. È il colmo. Ci dicono di firmare questo verbale di accompagnamento, altrimenti aspetteremo l’avvocato. Posso immaginare l’attesa. L’avvocato non cambierebbe nulla. Non servirebbe a contestare accuse che ovviamente non sono neanche formulate perché inesistenti. Ancor meno servirebbe per chiedere delucidazioni che puntualmente e ovviamente non arriverebbero, su quelle due ore allucinanti passate al commissariato. Non servirebbe a rimuovere quella rabbia, quell’odio e quella mia dignità che sento offesa, ferita, calpestata. Vi odio bastardi. Firmiamo. Ci accompagnano fuori gli stessi quattro che ci hanno fermati. Ora ridono, fanno battute idiote. Ci fermano sulla porta. Il commiato.
«Sono un fascista – dice  uno di loro – e quando ci date dei gladiatori, voi pensate di offenderci, ma per noi è un vero onore (Gladio era una struttura dei servizi segreti deviati negli anni ’90 n.d.a.)». Il fondo dello schifo. Guardo l’ora. Sono passate solo due ore e mezza, a me è sembrata un’eternità. Mi guardo intorno. Siamo di nuovo circondati da estranei che non sanno e non vogliono sapere, non vogliono riflettere, prendere atto, coscienza e agire. Penso alla frase di una canzone: ‘più li conosci più li odi’. Esprime il nostro stato d’animo, il mio, di allora come di adesso.”
Quando presentammo il libro all’università davanti a moltissime persone Silvia era felice. Andò via poco prima della fine dell’incontro.
«È stato il giorno più bello della mia vita», mi sussurrò nell’orecchio.
È morta qualche mese dopo. Una morte improvvisa. Non ho mai capito esattamente la causa. Di sicuro le ore passate nel commissariato non le avevano fatto bene. Il suo desiderio di cambiare il mondo era stato aggredito dalla brutalità degli uomini. Dalla falsità delle istituzioni. Ma in qualche modo e senza saperlo, aveva fatto la storia.

           Silvia Bernardini e Carmelo Albanese

lunedì 21 novembre 2011

Egeria la ninfa amante del re

Per molti Egeria altro non è che un’acqua minerale! Per altri è una fonte immersa nel Parco della Caffarella. Ma quell’acqua, un po’ acidula, che sgorga dalla sorgente, altro non è che il pianto di una ninfa che più di duemila anni fa perse il suo grande amore.
Raccontano Tito Livio e Plutarco che il sabino Numa Pompilio regnò a Roma - intorno al 700 A.C. - dopo la scomparsa di Romolo. Era un uomo pacifico, di provata fede, noto per la sua pìetas religiosa. Sposò Tazia, ma rimase vedovo dopo dodici anni di matrimonio.
Egli amava trascorrere le sue giornate nel bosco sacro dedicato a Diana e lì conobbe Egeria, ninfa delle sorgenti, nonché protettrice delle partorienti.
I due si innamorano. Lei consiglia il re per il mantenimento della pace a Roma, dopo il cruento regno di Romolo, contribuendo fortemente affinché quel rozzo popolo di pastori – i Romani – si emancipasse.  
Così Roma conobbe un lungo periodo di riforme che consolidarono le istituzioni specie quelle religiose. Fu riformato anche il calendario suddividendolo in giorni “fausti” e “infausti”, cioè non idonei per prendere decisioni  pubbliche.
Bellissima e potente, era esperta della vita: conosceva gli uomini ed i misteri divini. Ogni sera i due si incontravano nei pressi del Celio, per parlare. E per amarsi.
Ma Numa era avanti con gli anni, morì ottantenne, lasciandola nella disperazione.  Si rifugiò nel bosco sacro di Diana. A nulla valsero la pietà delle altre ninfe ed i racconti di Ippolito, figlio di Teseo. Ovidio, nelle sue Metamorfosi, ci racconta che Egeria si sciolse in lacrime, trasformandosi  in una sorgente per il volere di Diana.
Il luogo divenne sacro e le acque che lì sgorgavano si diceva che avessero il potere di guarire gli infermi.  Oggi, quando beviamo un sorso di quell’acqua, ricordiamoci che sono le lacrime d’una donna che è stata amata e che ha saputo amare!


Di Marco Ricalzone

domenica 20 novembre 2011

Alida Valli

Pola 1921 - Roma 2006


«Ma l’amore no, l’amore mio non può...»
È la canzone più trasmessa dall’EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche, la Rai di allora) dal 1942 al ’45, cantata dalle giovani donne italiane mentre si dedicano alle incombenze domestiche. A lanciarla è lei, la bellissima e allora poco nota Alida Valli, il viso sorridente e ingenuo del film Stasera niente di nuovo di Mario Mattioli. Ma se le note della canzone risuonano ovunque in Italia, Alida se ne sta nascosta a Roma per evitare ritorsioni fasciste: nel 1942, pare su pressione personale di Mussolini, le due parti del lungometraggio Noi Vivi - Addio Kyra (regia di Goffredo Alessandrini) venivano censurati dal regime.
Alida era nata a Pola il 31 maggio del 1921 in una famiglia aristocratica (i von Altenburger ) dove musica e cultura erano di casa: la madre era pianista e il padre professore di filosofia e critico musicale. La cultura di Alida, la sua bellezza singolare, la sua intelligenza unite a una grande versatilità costituivano uno straordinario patrimonio artistico per la sua futura carriera di attrice.
La Valli debutta nel 1935 nel film di Mario Camerini Il cappello a tre punte, e non si ferma più: dal 1935 al 1940 gira ben quindici film. Nel 1941 Mario Soldati le affida la parte di Luisa, intenso ruolo drammatico nel film Piccolo mondo antico dal romanzo di Fogazzaro: la sua interpretazione riceve il premio speciale al festival di Venezia. Ma è un anno doloroso per Alida: proprio allora il fidanzato, il pilota Carlo Cugnasca, muore in Libia. Nel ’47, ancora diretta da Soldati, riceve il Nastro d’Argento per Eugenia Grandet. A quel punto Hollywood la chiama per lanciarla come la “Ingrid Bergman italiana”. Alida parte con il piccolo Carlo, nato nel 1945 dal suo matrimonio con il compositore Oscar De Mejo, cugino dell’amica Leonor Fini.
Ma Alida non è Ingrid, ogni confronto tra le due attrici non ha alcun senso.
In Alida, invece c’era ben altro. C’era qualcosa che non mancava mai di “prendere” gli attori e i registi che lavoravano con lei e per lei. Qualcosa che si rinnovava ogni qualvolta interpretava un personaggio capace di ergersi con una differenza sostanziale, come un’interfaccia, un velo-sipario fra finzione e realtà. Partner e registi ne avvertivano immediatamente la presenza, e ne subivano le conseguenze, senza aver bisogno di rinunciare neppure a una briciola delle loro capacità interpretative e dirigenziali. Alida era sempre presente (anche quando la sceneggiatura non lo prevedeva) ben consapevole della sua femminilità da cui traeva forza per guidare gli altri, sempre conscia dell’importanza di ogni ruolo. Persino pronta a sacrificare il suo personaggio per evidenziare, quando necessario, quello dei suoi compagni di lavoro. Di conseguenza eccola giganteggiare su tutto il cast in modo tale da indurre il pubblico, i registi e persino i critici, a centrare Il caso Paradine attorno a lei piuttosto che ad Alfred Hitchcock, come ne Il terzo uomo diretto da Carol Reed e con Joseph Cotten e Orson Welles...Vale forse la pena di far notare l’importanza dei due nomi. Hitchcock e Welles, due colonne fondamentali a sostegno dell’erigendo tempio dedicato al culto del cinema. Alida, una onnipresente, bellissima donna che era in grado di dominare silenziosamente la pellicola dei film, il palcoscenico dei teatri, gli schermi della televisione. Bellissima, ma anche enigmatica e dolorosa come quando offre il suo volto sciupato e sofferente alla contessa Serpieri, amante infelice in Senso di Luchino Visconti, dove ci permette di avvertire quasi un precoce e struggente congedo dalla giovinezza: i capelli sciolti solo nelle ore dell’amore (tra le braccia di Farley Granger) e poi stretti nel severo chignon, la ruga profonda tra i chiari occhi sempre straordinari, le pieghe amare ai lati della bocca, l’inquietudine trattenuta e dolorosa evidente nella postura delle spalle e nel passo rapido… Siamo nel 1954, quando scoppia lo “scandalo Montesi”: Wilma Montesi, una giovane donna, viene trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica. Tra gli indiziati c’è il musicista Piero Piccioni (figlio dell’allora Ministro degli Esteri, Attilio Piccioni) legato sentimentalmente ad Alida: la stampa e l’opinione pubblica non danno tregua all’attrice che ne soffre tantissimo fino al punto di non recitare più per tre anni. Torna sugli schermi chiamata da Michelangelo Antonioni nel 1957 ne Il grido e nello stesso anno con Gillo Pontecorvo (La grande strada azzurra del 1957).
Nel 1961 è protagonista insieme a Georges Wilson di L’inverno lo farà tornare (Une aussi longue absence), di Henri Colpi. Due grandi registi italiani la chiamano negli anni Sessanta: Franco Brusati (Il disordine del 1962), Pier Paolo Pasolini (Edipo re del 1967). Più tardi Alida è diretta da Bernardo Bertolucci in La strategia del ragno (1970) e in Novecento (1976) ; e nel ‘72 da Valerio Zurlini in La prima notte di quiete (1972) accanto ad Alain Delon. Nel 1977 partecipa al film di Roberto Benigni Berlinguer ti voglio bene diretto da Giuseppe Bertolucci; nello stesso anno Dario Argento le affida due ruoli inquietanti in Suspiria (1977) e Inferno (1980).
Vince per la seconda volta il David di Donatello alla carriera nel 1991 (il primo l’aveva vinto nove anni prima come miglior attrice non protagonista per La caduta degli angeli ribelli) e nel 1997 il Leone d'Oro alla carriera a Venezia.
Il teatro l’aveva attirata molto presto: nel gennaio del ‘46 Alida aveva debuttato al Teatro Biondo di Palermo con Raoul Grassilli, Tino Buazzelli, Andrea Bosic in La casa dei Rosmer di Ibsen.
Nel ‘67 recita in Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, con Raf Vallone, Massimo Foschi e Lino Capolicchio, diretto da Raf Vallone, nel '69 in Il Dio Kurt, di Alberto Moravia, con Luigi Proietti, con la regia di Antonio Calenda. Nel ‘73, ne Il gabbiano di Anton Cechov, è con Carlo Simoni, Roldano Lupi e Ernesto Calindri, regia di Fantasio Piccoli.
La sua ultima apparizione sul palcoscenico è del 1988 in La città morta di Gabriele D’Annunzio con la regia di Aldo Trionfo.
Fra gli ultimi film Il lungo silenzio di Margarethe von Trotta (1993) e sei anni dopo Il dolce rumore della vita di G. Bertolucci.
Molte le sue interpretazioni per la televisione: indimenticabile Piccolo Mondo Antico (con la regia di Salvatore Nocita del 1989), e L’eredità della Priora (regia di Anton Giulio Majano nel 1980).
Quando Alida muore a Roma nel 2006, poverissima, sostenuta soltanto dalla pensione della legge Bacchelli, Bernardo Bertolucci la ricorda con queste parole: «Un mito, una dea».

Mariateresa Fumagalli e Lia Del Corno

Mariateresa Fumagalli, Professore di Storia della filosofia medievale all’Università degli Studi di Milano, condirettore della Rivista di Storia della Filosofia fondata da M. Dal Pra, e delle collane Quodlibet (Lubrina, Bergamo) e di Filosofia (Franco Angeli).

Lia Del Corno, Nasce e vive a Milano. Traduce (molto) dal francese, inglese e tedesco e scrive (poco) per Adelphi, Garzanti, Mondadori, RCS Libri, ma soprattutto si è occupata di teatro e ha curato le proposte culturali del Piccolo Teatro di Milano, del Franco Parenti e del Teatro Popolare di Roma. È sua l’idea delle lezioni-spettacolo che ha promosso con energia e entusiasmo. Attualmente continua l’attività di traduttrice; scrive libretti di opere liriche dedicate soprattutto ai giovani, firma qualche scenografia e disegna costumi.

Voce pubblicata nel progetto Enciclopedia delle donne

sabato 19 novembre 2011

Sara Nathan

Pesaro 1819 - Roma 1882


Sara Levi, detta Sarina, nasce a Pesaro il 7 dicembre 1819 e muore a Roma il 19 febbraio 1882. Sarina era nata da Angelo Levi (quondam Salomone di Senigallia) e dalle seconde nozze di Ricca Rosselli, figlia di Emanuel e Sara Bises. Da Roma i Rosselli si erano trasferiti nei primi decenni dell’Ottocento a Livorno. Sarina era dunque cugina dei Rosselli e aveva conosciuto il futuro marito, Moses Nathan, a Livorno, dove si erano sposati il 29 maggio 1836. Mayer Moses Nathan (Rodelheim, 22-4-1799/ Vicky, 4-8-1859) era nato in Germania, a Rodelheim presso Francoforte, e aveva dunque vissuto a lungo a Parigi. Agente di cambio, divenne cittadino britannico nel 1850. C’è chi avanza l’ipotesi che in realtà Nathan fosse un figlio, forse naturale, dei Rotschild, andatosene dalla Germania per dissapori familiari. Dal matrimonio di Sara e Moses nacquero dodici figli: David, Henry, Janet, Adolfo, Ernesto, Harriet, Giuseppe, Filippo, Walter, Alfredo, Ada, Beniamino. I Nathan che decisero poi di vivere in Italia sono: Ernesto (Londra, 5-10-1845/ Roma, 4-4-1921), il futuro sindaco di Roma; Harriet (Londra, 1837 - Roma 1904), detta Enrichetta, che sposerà Sabatino Rosselli (Livorno 1830 - Roma 1900) e sarà madre di Joe; Janet (Londra, 1842 - Livorno, 1911), detta Giannetta, che sposerà Pellegrino Rosselli (Livorno, 1834 - Livorno, 1911). Ernesto sposerà invece Virginia Mieli, conosciuta a Pisa (dove la famiglia Nathan si era trasferita nel 1859), figlia di Anna Rosselli, sorella dei quattro capostipiti livornesi Rosselli.
Sara Nathan è soprattutto ricordata per il suo impegno politico e per le sue iniziative sociali. Fu infatti una fervente patriota, tanto da aiutare Mazzini durante il suo esilio a Londra intorno al 1840 e a Lugano dal 1865. Anche i suoi figli seguirono la causa mazziniana, tanto da essere arrestati, come nel caso di Giuseppe. Del resto Mazzini morì a Pisa nel 1872, proprio a casa di Giannetta Nathan e Pellegrino Rosselli.
Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1859, Sarina decise di trasferirsi con la sua famiglia a Pisa e più tardi a Milano, svolgendo un importante ruolo politico per il Partito d’Azione fondato da Mazzini. Per questo, Sarina cominciò ad essere sorvegliata, finché la sua casa venne perquisita. Accusata di cospirazione, riuscì a fuggire prima di essere arrestata e riparò a Lugano. Qui, dopo aver vissuto a Castagnola e in particolare a Cassarate in casa Galli, il 1 agosto 1865 Sarina acquistò da Abbondio Chialiva la villa denominata “La Tanzina”, dal nome del suo primo proprietario, il conte milanese Franco Tanzi. La Tanzina sorgeva sulla sponda occidentale del lago di Lugano, fuori del rione Nassa, compresa fra il tempietto di Washington e la wellingtoniana. La Tanzina venne abbattuta nel 1908, lasciando spazio per la costruzione del lungolago che dal giardino della Tanzina va a Paradiso. In questa villa visse Mazzini fino al 1871 – negli stessi anni in cui Cattaneo abitava a Castagnola -, quando ritornò in Italia sotto lo pseudonimo di mister Browne, ospite della figlia di Sarina a Pisa.
Dopo la l’unificazione italiana, compiutasi nel 1871 con la conquista di Roma, Sarina tornò a vivere a Roma, dove già alcuni dei suoi figli si erano stabiliti. Qui dette origine a numerose iniziative educative, filantropiche e sociali. Fondò tra l’altro nel quartiere di Trastevere una scuola intitolata a Mazzini, dove le ragazze potevano studiare e apprendere i principi morali della sua opera sui Doveri dell’uomo. Sarina aprì inoltre una casa per prostitute, l’Unione benefica, con l’intento di prevenire la prostituzione, offrendo a ragazze indigenti o in difficoltà alloggio, mezzi e possibilità di lavoro.
Amelia Rosselli ricorda Sarina nelle sue memorie con queste parole: «Sara Nathan, la madre dei nove fratelli Nathan e delle tre sorelle (una delle quali fu madre di mio marito). Donna di grande volontà, di grande intelligenza, la sua figura sempre grandeggiò nel ricordo dei figli, offuscando del tutto quella del padre, anche dopo morta. Per lunghissimi anni, nel giorno anniversario della sua morte, il 19 febbraio, i figli e le figlie di Sara Nathan convenivano dai punti più lontani d’Europa e si riunivano intorno alla sua tomba, a Campo Verano, a Roma. Il 20 febbraio, altra riunione, alla Scuola Mazzini nel popolare quartiere di Trastevere, fondata dalla famiglia Nathan in omaggio alla memoria di Giuseppe Mazzini: scuola a-religiosa, dove l’insegnamento religioso era sostituito dalla lettura e commento dei Doveri dell’Uomo. La Scuola era frequentata dalle ragazze del popolo, e oltre allo studio le iniziava a diversi mestieri. Insegnavano, per lo studio, alcune delle sorelle Nathan, e più tardi anche le nipoti, cioè la nuova generazione che cresceva e veniva educata agli stessi ideali.»

 

Marina Calloni

Ordinario in filosofia politica e sociale presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca, vincitrice di un concorso per l’incentivazione del rientro di studiosi in Italia ("rientro dei cervelli"). È stata borsista all’Università di Francoforte presso J. Habermas e senior researcher presso la London Scool of Economics and Political Science di Londra.
 

La voce fa parte del progetto Enciclopedia delle donne consultabile nel sito http://www.enciclopediadelledonne.it/

mercoledì 16 novembre 2011

Galeotto fu il libro

Geltrude Pellegrini (Monteguidone 1806 circa - Roma 1838)

Ne ha viste saltare così tante di teste Mastro Titta - e non in senso metaforico - che ormai ci ha fatto il callo. L’infaticabile boia non si spaventa certo davanti a un po’ di sangue, ma quella del 9 gennaio 1838, in via dei Cerchi, non è una decapitazione di routine. La folla è immensa, stipata in strada, alle finestre, con tanto di binocolo per vedere meglio lo spettacolo. Inusuale, perché al patibolo non è atteso uno dei soliti brutti ceffi, ma una ragazza affascinante ed educata. Assassina per amore. Geltrude Pellegrini arriva, assistita dai confratelli dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, scende dalla carrozza, sale con passo fermo i gradini, bacia il crocifisso e si prepara per l’esecuzione.
La storia della giovane originaria di Monteguidone, in provincia di Rieti, la conosciamo grazie al romanzato racconto del carnefice. Geltrude è una bellissima ragazza corteggiata da tutti. Scrive, ricama, fa di conto. La madre è orgogliosa, ma anche un poco preoccupata. Invece di cercare marito la figlia passa il tempo a leggere libri. Oggetti a volte pericolosi, perché possono mettere in testa strane idee. D’estate Geltrude trascorre ore e ore sui prati alle prese con il suo mondo fantastico. Finché un giorno realtà e finzione arrivano quasi a toccarsi.
Sembra infatti uscito da un romanzo il bel giovane alto e biondo che la ragazza si trova di fronte un pomeriggio d’agosto. Un cacciatore, con il fucile in spalla. Vive a Roma e si è perso nella macchia. Per tutta la notte Geltrude non chiude occhio, non fa che pensare a lui. Il giorno dopo, nuovo incontro. Galeotto fu il libro... Da allora, ogni volta è un vortice di baci, abbracci, sospiri. Passione. Fino alla doccia fredda. Enrico è sposato. Le sembra di impazzire e tronca tutto. Tre mesi dopo, il matrimonio riparatore. Francesco Stefanotti è un ricco bottegaio sulla quarantina. Geltrude va a vivere con lui a Roma, lavora nel suo negozio. Un giorno uguale all’altro. Tutta routine, niente emozioni.
Finché una mattina davanti alla bottega di Geltrude passa un corteo funebre. Lei si affaccia, curiosa. È morta una donna di parto. Ma non una qualunque. La moglie di Enrico. Sviene. Una settimana dopo lui si fa vivo, di nascosto le dà un biglietto. Domenica alle 10 a San Pietro. Geltrude è sicura, non andrà. Invece va. La passione è viva, riprendono gli appuntamenti clandestini. A ruoli invertiti.
Un imprevisto fa saltare il precario equilibrio. Il marito cede il negozio. Può permetterselo e non gli pare vero di dedicare più tempo alla moglie. Per lei è un dramma. Vede svanire la possibilità di incontrare Enrico. Deve liberarsi di lui. Non ha scelta.
Dopo una serata di sesso intenso, appena il marito si addormenta, sfinito, Geltrude prende un affilato coltello e glielo affonda nel petto. Poi si veste, raccoglie le sue cose, i valori, il denaro. Mette tutto in due valigie e esce.
Si presenta a casa dell’amante alle prime luci dell’alba. Spossata, ma leggera. Sono finalmente liberi, entrambi. Enrico la accoglie in modo freddo, scostante. Pensa sia fuggita di casa ed è terrorizzato dalla responsabilità. Geltrude gli racconta cosa è successo. L’uomo inorridisce. Tutto intorno a lei inizia a girare vorticosamente. Si sente mancare le forze. È arrivata a uccidere per stare con lui e ora viene respinta. La vita non ha più senso. Se ne va, con le due valigie. Prende una carrozza, si fa portare dal monsignor Fiscale. Al magistrato confessa il delitto nei particolari. Tace solo il nome dell’amante. Non tradisce, nonostante il dolore e la delusione. Su questo è irremovibile, per tutto il processo. Al termine del colloquio Geltrude Pellegrini, proveniente da Rieti, di anni ventiquattro, professione donna di casa viene condotta nelle segrete delle Carceri nuove. È il 29 giugno 1830. L’accusa è di parricidio. Definizione allora usata per qualsiasi uccisione di un parente.
Nel dicembre 1832 c’è la prima sentenza. Pena capitale. Il ricorso al Tribunale della Sacra Consulta si conclude il 31 dicembre 1836 con la definitiva condanna «a morte di esemplarità». Che in genere «si eseguisce colla fucilazione alle spalle». Per Geltrude, invece, c’è la ghigliottina.
Lo spettacolo in piazza è molto atteso. Perché le donne romane dell’Ottocento non sono stinchi di santo, ma le questioni di vicinato, gelosia o rivalità amorose le risolvono al massimo a suon di botte e coltellate. Sempre violenza, certo, ma ben diversa dall’omicidio.
Mastro Titta nelle sue memorie ricorda: «Non appena fu caduto sotto il colpo della ghigliottina, afferrai per i capelli il capo della bellissima donna e sollevandolo lo mostrai alla folla attonita e commossa come non mi era mai accaduto di vedere». Chissà che un brivido non abbia attraversato anche la sua schiena.

Paola Staccioli

martedì 8 novembre 2011

Cimone e Pero ovvero la Carità Romana

Se ti trovi a passeggiare per il centro di Roma, nei pressi della chiesa di San Nicola in Carcere al foro Olitorio, osserva alla destra della chiesa la piccola area archeologica al confine con il Teatro di Marcello.

È il luogo ove ebbe luogo la toccante storia di Cimone e di sua figlia Pero, ai tempi della Repubblica Romana.
Il vecchio Cimone si trovava in catene in un carcere, condannato a morire di fame per un reato ignoto.
Sua figlia, Pero, ottiene il permesso per entrare nel carcere a patto di non portare cibo al condannato. Ha partorito da poco e allatta il suo piccolo. Con lo stesso latte, di nascosto, nutre il padre. Così passa il tempo, Cimone non muore.
Il carceriere comincia a sospettare che qualcosa di strano stia accadendo e controlla di nascosto ciò che fa la donna ogni qual volta si reca in visita dal genitore. Coglie in flagrante Pero mentre sta allattando Cimone, ma le autorità, commosse per il gesto disperato di “pietas” della donna, concedono a Cimone la libertà.
In memoria di questo evento, Quinctio M. Acilio fece costruire un tempio dedicato alla Pietas, ove ora si trova il Teatro di Marcello.

Questa storia è stata ripresa nell’antichità da più autori, tra questi Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia ove egli narra la vicenda con una variante: in carcere è reclusa la madre della donna e conclude il racconto con la frase “quo miraculo matris salus donata filiae pietati est”.

Nei secoli e nei millenni questo toccante racconto è stato ripreso nelle forme più varie: Caravaggio lo rappresenta nel suo quadro “Le sette opere di misericordia”, Peter Paul Rubens ne dipinse varie versioni.

giovedì 3 novembre 2011

Maria Durante, la nonna sine qua non

Classe 1892… Nasce quasi 120 anni fa a Via Lanza, da una famiglia romana da sette generazioni. Uno zio attore e poeta dialettale conosciuto, Checchino che con la moglie Anita, per anni ha calcato le scene.

Maria è la seconda di tre fratelli. Una fibra forte. E tante disgrazie da raccontare. Il padre muore prestissimo. E la madre lascia i figli ancora ragazzi per una polmonite "fulminante". Succedeva spesso prima dell’era degli antibiotici. Anche la bella sorella minore muore giovane, nel 1919 portata via dall’epidemia di febbre "spagnola" che seguì la Grande Guerra e che in Europa provoca più morti della guerra stessa. Il fratello la mantiene agli studi ma non sopravvive per molto. Muore anche lui di polmonite negli anni '30 dopo essere riuscito a salvarsi a nuoto da un naufragio al largo di Anzio.

Intanto Maria, fra tante disgrazie familiari, non si è persa d’animo. Appena diplomata all’istituto magistrale ha trovato lavoro. Prima alle Poste. Nel 1910 a soli 18 anni è una delle prime "signorine radiotelegrafiste". Poi alla Società Anglo Americana. L’azienda che a Roma ha portato una grande novità. La corrente elettrica. Lei fa la segreteria-dattilografa. Corre sempre, attiva e dinamica con i suoi 20 anni. E correndo, correndo provoca l’incidente che le cambierà la vita.

All'angolo di un corridoio va veloce sui tacchi, con in braccio una pila di pratiche da archiviare, e… travolge il suo capo, il temuto Ingegner Romolo. Cadono a terra insieme, tra fogli che volano e le risatine impaurite delle colleghe. L’ingegnere si rialza, aiuta la maldestra impiegata, tutta rossa di vergogna e di paura… Forse sarà licenziata! Ma no, al contrario. Tra i due nasce l’amore. Poco dopo il fidanzamento ufficiale e le nozze. Maria lascia il lavoro, come si usava al tempo, e va a vivere con il marito in una casa popolare costruita ai margini della città, sui prati che guardano verso Monte Mario.

Lì nascono due figli che l’ingegnere, laico e positivista, battezza Sirio e Elio. Una stella e un gas… Se fosse nata una bambina si sarebbe chiamata Selene. Una scelta anticonformista per i tempi... Il primogenito nasce nel 1922. Sotto le finestre della clinica risuonano urla e spari. Squadracce fasciste stanno assaltando una sede del Partito Socialista.

Romolo e Maria continuano la loro vita tranquilla. Non senza piccoli gesti che all’epoca sono forse eroici. Il marito rifiuta la tessera del Partito fascista e il sabato sfoggia le sue camicie più immacolate, disertando adunate e riunioni di caseggiato. Passa qualche guaio, rischia di perdere il lavoro, poi fortunatamente tutto si acquieta. Ma niente carriera. E la sera, per arrotondare lo stipendio con il tram va ad insegnare in un istituto tecnico per studenti lavoratori. I figli fanno comunque il loro tirocinio da Balilla, poi crescono e vanno all'università. Maria bada alla casa e li cresce con amore.
Dopo la guerra, Mussolini finisce a Piazzale Loreto. I figli si sposano. Il marito muore prematuramente nel 1964. A riempire il vuoto ci sono i nipoti. Una vita da pensionata lunga e piena di attività.

Rimane sempre una donna intelligente e curiosa. Lei, cattolica e borghese anche se di anima popolana, ha sempre votato per la Democrazia Cristiana. Ma poi arriva il referendum contro il divorzio. E nel 1974, a 82 anni, lei si indigna contro gerarchie cattoliche e politici bacchettoni. L’esperienza della sua lunga vita conta più delle indicazioni del Vaticano. E non può certo votare come Almirante. Vota no. E alle successive elezioni vota… repubblicano. Poi, forse per far piacere ai nipoti, arriva a votare per il Partito comunista di Berlinguer. Fa in tempo a vedere l’elezione di Pertini e di papa Wojtyla, l’omicidio di Aldo Moro. Sembra che il tempo le scivoli addosso senza cambiarla. Nella sua vecchia casa, con un gatto e l’immancabile lavoro a maglia sulle ginocchia. Il Rischiatutto di Mike Buongiorno il giovedì sera. Sopportando con saggezza i nipoti che le invadono casa con con ragazze e amici, musica e un tavolo da ping-pong. Una sera, a 97 anni, si addormenta sulla poltrona e non si sveglia più.

Mi manchi, Nonna Maria.

 
Marco Di Renzo