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giovedì 24 novembre 2011

Silvia Bernardini

101 donne che hanno fatto grande Roma. Finalmente un libro che racconta le donne, ho pensato. Inizia dalle più conosciute, è normale. Dalle donne che la storia ufficiale ha avuto la benevolenza di far sopravvivere a Cesare, Garibaldi, o ad uno dei settecentomila papi di Roma. Tutti maschi. Una storia a ‘sesso unico’ più che a ‘senso unico’.
Poi mi è stato chiesto di scriverne una da aggiungere alle 101 precedenti. Due considerazioni mi frenavano. Può un uomo raccontare una donna? Se è lui a raccontarla, continuerà a non avere una voce propria! Avevo anche un’altra resistenza. Non solo la ‘Storia’ è riservata ai maschi, ma spesso si occupa esclusivamente delle gesta dei così detti ‘grandi’. Delle persone comuni nei libri non c’è traccia. Ma “Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Sono stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?”. No di certo. E’ ovvia la risposta al quesito retorico posto da Brecht. Sono state le persone comuni.
Di recente sono stato ad una manifestazione. C’erano molti giovani. Tra loro migliaia di ragazze. Scese in piazza per far somigliare il mondo ai propri sogni. Come Silvia quel giorno. Il 12 Maggio 1991. Era un corteo di commemorazione per Giorgiana Masi. Durante la manifestazione ci fu un po’ di tensione, ma nessun incidente. Ripensavo a lei guardando i volti delle ragazze. I dubbi sulla donna da raccontare si dipanarono. Avrei scritto un episodio della sua breve vita. Lo avrei fatto con le sue parole, che venti anni prima le avevo chiesto di scrivere. La storia la fanno le persone come lei. Coloro che non sanno di farla. Chi lo diceva? Tolstoj?
Magari Silvia lo aveva letto! Studiava all’università. Si interessava di letteratura, di politica. Voleva anche lei un mondo diverso. Era intelligente. Un po’ introversa, ma solo ad un primo impatto. Schiva, ma sempre sorridente. Di una bellezza particolare. Non accettava di omologarsi neppure su quel piano. Aveva i capelli rossi. Non proprio rossi, color rame. Esile. Uno sguardo disarmante che ti arrivava diretto, anticipando lo stupore per il colore azzurro degli occhi. Aveva sempre tra le mani un numero di Dylan Dog.
Quando la incontrai all’università, sulle scale della facoltà di Lettere, era da un po’ che non la vedevo in giro.
«Ciao. Finalmente ti rivedo. Sei scomparsa? »
«Non hai saputo niente? »
«Di cosa? Cosa avrei dovuto sapere?»
«Mi hanno fermata dopo il corteo per Giorgiana Masi. Mi hanno riempita di botte. Sono stata malissimo. Mi sono chiusa per un po’ in me stessa»
Sono rimasto sbigottito. Era introversa. In fondo non ero neppure il suo migliore amico. Le sue parole erano flebili, tremolanti. I suoi occhi si nascondevano al mio sguardo. Pensai che la sua inaspettata confidenza nascondeva il desiderio di raccontare quanto le era capitato di vivere.
«È una cosa orribile. Dovresti farlo sapere pubblicamente. Devi liberarti in qualche modo».
«Si ma non ho voglia di sporgere una denuncia alle stesse persone che mi hanno fatto male. E poi non voglio espormi».
«Hai ragione. Ti propongo una cosa. Sto per far uscire un libro di poesie contro la guerra del golfo. Potresti scrivere quello che ti è successo. Il libro sarà anonimo. È un modo per far sapere. Non comparirà il tuo nome».
«Si. Così mi va. Ho bisogno di farlo».
Non passò neppure una settimana. Mi consegnò le pagine con il suo drammatico racconto. Lo lessi tutto d’un fiato.
“Ogni volta che ripenso a quello che è successo a me e ad altri due compagni qualche mese fa, non posso non sentire una specie di nodo allo stomaco che mi stringe e un senso di rabbia che mi sale dentro e che vorrebbe  esplodere, come quel giorno appunto.
Tornando dal corteo io e gli altri due compagni risalivamo una via insieme a molti altri ed eravamo neanche seguiti, ma praticamente circondati da uno smisurato schieramento di forze dell’ordine. Polizia armata fino ai denti, minacciosa e provocatoria e tantissima polizia politica naturalmente. Mentre camminavamo ci sono stati battibecchi, cose da poco, tra il nostro gruppo e i poliziotti di un blindato. Ad un certo punto abbiamo notato una macchina con dentro quattro elementi della polizia politica che sembravano guardarci con particolare attenzione. Sarà un’impressione, ci saremo sbagliati pensiamo, un po’ di paranoia. Alla fine della via li vediamo fermarsi a parlare con un altro elemento della polizia politica che conosciamo bene, un habitué dell’università, delle nostre facoltà quotidianamente e intensamente presidiate, controllate. Ci indica poi non li vediamo più. Alla stazione incautamente prendiamo l’autobus. È al capolinea e su quelli accanto salgono altri compagni. Ci sentiamo tranquilli, ma stranamente quegli autobus partono tutti prima del nostro e a un certo punto ci accorgiamo di essere rimasti soli, circondati solo da estranei. Sapremo poi che i quattro della polizia politica che avevamo visto a via Cavour ci stavano cercando sugli altri autobus e non avendoci trovati, li avevano lasciati partire, mentre avevano fermato il nostro.  È un attimo, appena il tempo di capire la situazione e i quattro della polizia politica salgono sull’autobus.
«Tu, tu e tu» fa uno piccolo e tozzo.
Cerchiamo di prendere tempo, ma un altro alto e grosso con dei guanti di pelle nera ci prende chi per un braccio chi per un orecchio. Ci fanno scendere. I bastardi si presentano subito: schiaffi, spinte, lì di fronte al capolinea, mentre i presenti, gli estranei, guardano incuriositi e basta. Non una parola, non un sussulto. Ci portano alla macchina parcheggiata poco distante, vicino ad alcune lamiere e cominciano. Sono schiaffi, fanno male, ma forse meno delle parole, degli insulti di quei bastardi. Quello con i guanti è il più eccitato.
«Stronza, zecca – mi dice – l’hai mai preso il cazzo a mestiere troia?» e giù una marea di sputi in faccia.  Ci fanno una vera doccia di sputi.
«Siamo fascisti – ci dicono e sembrano usciti da un manuale degli anni ’70 sull’agente di polizia politica modello – le zecche come voi le schiacciamo» e giù schiaffi, spinte, soprattutto sui due compagni.
Non ci spiegano nulla. Inutile chiedere, domandare, le risposte sono solo botte, insulti. Mi giro perché vedo uno dei quattro che prende a capocciate un compagno ed allora quello con i guanti mi prende la faccia e mi sputa a mezzo millimetro, mi continua a stringere e poi di nuovo «troia, gettone, mi ti inculo, ora vedi cosa ti succede».
Mi sento morire per la rabbia, l’impotenza. Non puoi parlare, non puoi reagire, si accaniscono sempre di più. Vedo i compagni con le facce rosse gonfie, il dolore che diventa rabbia: bastardi.
«Ci tiravate sassi al corteo, vi abbiamo visto - ci dicono – adesso conoscerete la galera, questa volta avete chiuso».
Intanto arriva anche una macchina della polizia. A me e ad un mio compagno ci caricano su questa, l’altro su quella della polizia politica e se almeno per noi due il tragitto fino al commissariato è relativamente tranquillo, per lui, solo con quei bastardi, non è così. Ma il peggio doveva ancora arrivare e immaginavo che sarebbe arrivato al commissariato, dove tutta la loro peggiore brutalità fisica e verbale avrebbe potuto avere libero sfogo lontano da qualsiasi occhio indiscreto. Pensavo questo in macchina, mentre sentivo dentro di me anche la paura, ma soprattutto tantissima rabbia, un disperato senso d’impotenza perché ad ogni reazione erano botte, insulti, perché vogliono solo umiliarti, metterti in uno stato di tensione assurda, farti sentire una merda; ma neanche per un istante volevamo dargli questa soddisfazione ed allora ostentavamo indifferenza e loro si accanivano, li irritava. Cercavano a ogni costo la nostra reazione per avere un pretesto, per poterci trattenere, perché loro, nonostante quello che dicevano, non potevano arrestarci senza un motivo e noi questo lo sapevamo bene.
Arrivati al commissariato siamo entrati in una stanza e ci hanno fatti mettere contro una parete a vetri. Sono arrivati, oltre ai quattro, altri elementi della polizia politica che hanno cominciato a spingerci e a prenderci a calci. Erano una decina. C’era una donna. Stava da una parte, ci guardava con disprezzo, non diceva nulla, non ho potuto fare a meno di guardarla a lungo. L’ho odiata forse più degli altri che ci picchiavano. Come poteva, essendo una donna oltre che guardia, non sentirsi ferita, non dire nulla di fronte a quello che mi veniva detto soprattutto da quel bastardo con i guanti.
«Io mi ti inculo, ora lo vedi che ti succede. Quando vai in carcere tu vieni in macchina con me; l’hai mai visto il cazzo di un poliziotto? È grosso come un manganello non come quello dei compagnucci tuoi».
A quel punto non ce l’ho fatta più a sentire i suoi insulti.
«Fai schifo», gli ho detto, o qualcosa del genere e allora s’è sfogato a schiaffi, a calci; mi faceva male alla testa che ad ogni schiaffo sbatteva alla porta a vetri. Poi ha cominciato a passarmi la sigaretta vicino alla faccia ed a tirarmi la cenere sul viso continuando.
«Troia, puttana, l’hai mai preso il cazzo a mestiere?» ed al mio istintivo spostarmi ancora botte, spinte. Così ed anche peggio per i due compagni.
Capocciate, teste sbattute sulla porta a vetri, schiaffi, dieci contro tre i bastardi. Ad un certo punto portano un compagno in un’altra stanza. Sentiamo schiaffi, strilli, quella pressione allucinante che ti fanno spingendoti in continuazione, urlando; ci giriamo istintivamente verso la stanza, ma ogni volta che proviamo a voltarci, a vedere, ci arriva uno schiaffo, e intanto ridono questi schifosi bastardi. Quando riportano il compagno, quello con i guanti sembra più eccitato, prende le teste dei compagni e le fa sbattere sulla mia che sto in mezzo. Sto male, cerchiamo di tranquillizzarci a vicenda; stringo il braccio del compagno vicino, lui la mia mano. Sembra che quest’incubo non passi mai. Ad un certo punto entrano dei poliziotti. Tornano dal corteo. Sono esagitati, carichi.
«Questi vi tiravano i sassi al corteo» insistono i quattro che ci hanno fermato, e i poliziotti uno per uno, passandoci davanti e poi tutti insieme a semicerchio davanti a noi, ci sbattono addosso i caschi, ci prendono a calci, ci sbattono dovunque, soprattutto contro la solita porta a vetri. Li ferma un graduato.
«Ragazzi non facciamo i cretini» dice, e intanto uno della polizia politica ferma anche quello con i guanti che continuava a promettermi di tutto stringendomi la faccia e sbattendomi la testa.
«Vi stiamo trasferendo in carcere. Ora vedi quello che ti succede».
Pur sapendo che non avrebbero potuto arrestarci cominciavamo a preoccuparci ed alle nostre richieste di parlare con un avvocato ci rispondevano con un ‘dopo’ sarcastico, accompagnato dai soliti schiaffi. E poi sanno picchiare questi bastardi! Non lasciano grandi segni. Solo qualche livido che d’altronde uscirà troppo tardi anche per farsi refertare ad un pronto soccorso. Ma quello che mi fa più male sono quelle parole, quelle frasi, una rabbia indescrivibile e un’impotenza snervante, lancinante, la coscienza di essere  forse più vulnerabile perché ti colpiscono e ti feriscono in un modo in cui non si può ferire un uomo.
Ci perquisiscono in maniera molto rapida, sommaria. Mi levano un opuscolo che ho in tasca. Continuano assurdamente a ripeterci che abbiamo lanciato sassi, bastoni, contro i blindati, contro di loro. Continuano a ripeterci che stanno per trasferirci in carcere. Sento un senso crescente di angoscia dentro di me. Penso che di lì a poco sarò separata dagli altri due compagni e sarò completamente sola con quei porci bastardi. Comincio a pensare che almeno lì smetteranno di picchiarmi, ma prima? Quello con i guanti continua e ad un certo punto un pugno fortissimo arriva nelle costole di uno dei compagni. Lui si piega. Gli si spezza il fiato. Ci dicono di passare in un’altra stanza. E’ grande. Sembra un cinema. Si schierano ai lati polizia politica e poliziotti. Ridono i bastardi. Ci fanno passare in mezzo. E’ l’ultima razione di calci, botte, sputi, insulti. Quel breve passaggio sembra non finire mai. Ogni volta ti spingono addosso agli altri. Siamo storditi. Non apriamo bocca. In questa sala, dove ci sono anche altri fermati, ci fanno sedere lontanissimi l’uno dall’altro. Ognuno da solo con intorno 4 o 5 della polizia politica. Ancora ci tempestano di domande, di insulti.
«Perché stavate al corteo? Potevate restare a casa, ma voi fate politica, lo sappiamo bene, e far politica fa male al cervello, oltre che alle ossa»; soprattutto qui, dove critica, analisi, dissenso, sono un puro e semplice reato. Cerchiamo di non guardarli, cerco di non guardarli. Schifosi.
Il tempo non passa mai, è eterno. Ci dicono che loro sono al corrente di tutto, inutile negare quindi, qualsiasi cosa. E ancora silenzio, rabbia…vero, falso, non c’è più alcun confine, alcun limite appunto, il puro e semplice arbitrio, quello sempre impunito di chi detiene anche solo briciole di potere, o meglio di chi è semplicemente servo, braccio armato del potere.
Improvvisamente ci chiamano su una specie di palco che sta nella sala. Ci sono persone che battono a macchina, scrivono verbali; ci fanno leggere frettolosamente un foglio: è assurdo, ridicolo ‘i suddetti sono stati fermati dopo la nota manifestazione – c’è scritto – nulla è stato trovato a loro carico e perciò vengono rilasciati’. È il colmo. Ci dicono di firmare questo verbale di accompagnamento, altrimenti aspetteremo l’avvocato. Posso immaginare l’attesa. L’avvocato non cambierebbe nulla. Non servirebbe a contestare accuse che ovviamente non sono neanche formulate perché inesistenti. Ancor meno servirebbe per chiedere delucidazioni che puntualmente e ovviamente non arriverebbero, su quelle due ore allucinanti passate al commissariato. Non servirebbe a rimuovere quella rabbia, quell’odio e quella mia dignità che sento offesa, ferita, calpestata. Vi odio bastardi. Firmiamo. Ci accompagnano fuori gli stessi quattro che ci hanno fermati. Ora ridono, fanno battute idiote. Ci fermano sulla porta. Il commiato.
«Sono un fascista – dice  uno di loro – e quando ci date dei gladiatori, voi pensate di offenderci, ma per noi è un vero onore (Gladio era una struttura dei servizi segreti deviati negli anni ’90 n.d.a.)». Il fondo dello schifo. Guardo l’ora. Sono passate solo due ore e mezza, a me è sembrata un’eternità. Mi guardo intorno. Siamo di nuovo circondati da estranei che non sanno e non vogliono sapere, non vogliono riflettere, prendere atto, coscienza e agire. Penso alla frase di una canzone: ‘più li conosci più li odi’. Esprime il nostro stato d’animo, il mio, di allora come di adesso.”
Quando presentammo il libro all’università davanti a moltissime persone Silvia era felice. Andò via poco prima della fine dell’incontro.
«È stato il giorno più bello della mia vita», mi sussurrò nell’orecchio.
È morta qualche mese dopo. Una morte improvvisa. Non ho mai capito esattamente la causa. Di sicuro le ore passate nel commissariato non le avevano fatto bene. Il suo desiderio di cambiare il mondo era stato aggredito dalla brutalità degli uomini. Dalla falsità delle istituzioni. Ma in qualche modo e senza saperlo, aveva fatto la storia.

           Silvia Bernardini e Carmelo Albanese

lunedì 21 novembre 2011

Egeria la ninfa amante del re

Per molti Egeria altro non è che un’acqua minerale! Per altri è una fonte immersa nel Parco della Caffarella. Ma quell’acqua, un po’ acidula, che sgorga dalla sorgente, altro non è che il pianto di una ninfa che più di duemila anni fa perse il suo grande amore.
Raccontano Tito Livio e Plutarco che il sabino Numa Pompilio regnò a Roma - intorno al 700 A.C. - dopo la scomparsa di Romolo. Era un uomo pacifico, di provata fede, noto per la sua pìetas religiosa. Sposò Tazia, ma rimase vedovo dopo dodici anni di matrimonio.
Egli amava trascorrere le sue giornate nel bosco sacro dedicato a Diana e lì conobbe Egeria, ninfa delle sorgenti, nonché protettrice delle partorienti.
I due si innamorano. Lei consiglia il re per il mantenimento della pace a Roma, dopo il cruento regno di Romolo, contribuendo fortemente affinché quel rozzo popolo di pastori – i Romani – si emancipasse.  
Così Roma conobbe un lungo periodo di riforme che consolidarono le istituzioni specie quelle religiose. Fu riformato anche il calendario suddividendolo in giorni “fausti” e “infausti”, cioè non idonei per prendere decisioni  pubbliche.
Bellissima e potente, era esperta della vita: conosceva gli uomini ed i misteri divini. Ogni sera i due si incontravano nei pressi del Celio, per parlare. E per amarsi.
Ma Numa era avanti con gli anni, morì ottantenne, lasciandola nella disperazione.  Si rifugiò nel bosco sacro di Diana. A nulla valsero la pietà delle altre ninfe ed i racconti di Ippolito, figlio di Teseo. Ovidio, nelle sue Metamorfosi, ci racconta che Egeria si sciolse in lacrime, trasformandosi  in una sorgente per il volere di Diana.
Il luogo divenne sacro e le acque che lì sgorgavano si diceva che avessero il potere di guarire gli infermi.  Oggi, quando beviamo un sorso di quell’acqua, ricordiamoci che sono le lacrime d’una donna che è stata amata e che ha saputo amare!


Di Marco Ricalzone

domenica 20 novembre 2011

Alida Valli

Pola 1921 - Roma 2006


«Ma l’amore no, l’amore mio non può...»
È la canzone più trasmessa dall’EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche, la Rai di allora) dal 1942 al ’45, cantata dalle giovani donne italiane mentre si dedicano alle incombenze domestiche. A lanciarla è lei, la bellissima e allora poco nota Alida Valli, il viso sorridente e ingenuo del film Stasera niente di nuovo di Mario Mattioli. Ma se le note della canzone risuonano ovunque in Italia, Alida se ne sta nascosta a Roma per evitare ritorsioni fasciste: nel 1942, pare su pressione personale di Mussolini, le due parti del lungometraggio Noi Vivi - Addio Kyra (regia di Goffredo Alessandrini) venivano censurati dal regime.
Alida era nata a Pola il 31 maggio del 1921 in una famiglia aristocratica (i von Altenburger ) dove musica e cultura erano di casa: la madre era pianista e il padre professore di filosofia e critico musicale. La cultura di Alida, la sua bellezza singolare, la sua intelligenza unite a una grande versatilità costituivano uno straordinario patrimonio artistico per la sua futura carriera di attrice.
La Valli debutta nel 1935 nel film di Mario Camerini Il cappello a tre punte, e non si ferma più: dal 1935 al 1940 gira ben quindici film. Nel 1941 Mario Soldati le affida la parte di Luisa, intenso ruolo drammatico nel film Piccolo mondo antico dal romanzo di Fogazzaro: la sua interpretazione riceve il premio speciale al festival di Venezia. Ma è un anno doloroso per Alida: proprio allora il fidanzato, il pilota Carlo Cugnasca, muore in Libia. Nel ’47, ancora diretta da Soldati, riceve il Nastro d’Argento per Eugenia Grandet. A quel punto Hollywood la chiama per lanciarla come la “Ingrid Bergman italiana”. Alida parte con il piccolo Carlo, nato nel 1945 dal suo matrimonio con il compositore Oscar De Mejo, cugino dell’amica Leonor Fini.
Ma Alida non è Ingrid, ogni confronto tra le due attrici non ha alcun senso.
In Alida, invece c’era ben altro. C’era qualcosa che non mancava mai di “prendere” gli attori e i registi che lavoravano con lei e per lei. Qualcosa che si rinnovava ogni qualvolta interpretava un personaggio capace di ergersi con una differenza sostanziale, come un’interfaccia, un velo-sipario fra finzione e realtà. Partner e registi ne avvertivano immediatamente la presenza, e ne subivano le conseguenze, senza aver bisogno di rinunciare neppure a una briciola delle loro capacità interpretative e dirigenziali. Alida era sempre presente (anche quando la sceneggiatura non lo prevedeva) ben consapevole della sua femminilità da cui traeva forza per guidare gli altri, sempre conscia dell’importanza di ogni ruolo. Persino pronta a sacrificare il suo personaggio per evidenziare, quando necessario, quello dei suoi compagni di lavoro. Di conseguenza eccola giganteggiare su tutto il cast in modo tale da indurre il pubblico, i registi e persino i critici, a centrare Il caso Paradine attorno a lei piuttosto che ad Alfred Hitchcock, come ne Il terzo uomo diretto da Carol Reed e con Joseph Cotten e Orson Welles...Vale forse la pena di far notare l’importanza dei due nomi. Hitchcock e Welles, due colonne fondamentali a sostegno dell’erigendo tempio dedicato al culto del cinema. Alida, una onnipresente, bellissima donna che era in grado di dominare silenziosamente la pellicola dei film, il palcoscenico dei teatri, gli schermi della televisione. Bellissima, ma anche enigmatica e dolorosa come quando offre il suo volto sciupato e sofferente alla contessa Serpieri, amante infelice in Senso di Luchino Visconti, dove ci permette di avvertire quasi un precoce e struggente congedo dalla giovinezza: i capelli sciolti solo nelle ore dell’amore (tra le braccia di Farley Granger) e poi stretti nel severo chignon, la ruga profonda tra i chiari occhi sempre straordinari, le pieghe amare ai lati della bocca, l’inquietudine trattenuta e dolorosa evidente nella postura delle spalle e nel passo rapido… Siamo nel 1954, quando scoppia lo “scandalo Montesi”: Wilma Montesi, una giovane donna, viene trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica. Tra gli indiziati c’è il musicista Piero Piccioni (figlio dell’allora Ministro degli Esteri, Attilio Piccioni) legato sentimentalmente ad Alida: la stampa e l’opinione pubblica non danno tregua all’attrice che ne soffre tantissimo fino al punto di non recitare più per tre anni. Torna sugli schermi chiamata da Michelangelo Antonioni nel 1957 ne Il grido e nello stesso anno con Gillo Pontecorvo (La grande strada azzurra del 1957).
Nel 1961 è protagonista insieme a Georges Wilson di L’inverno lo farà tornare (Une aussi longue absence), di Henri Colpi. Due grandi registi italiani la chiamano negli anni Sessanta: Franco Brusati (Il disordine del 1962), Pier Paolo Pasolini (Edipo re del 1967). Più tardi Alida è diretta da Bernardo Bertolucci in La strategia del ragno (1970) e in Novecento (1976) ; e nel ‘72 da Valerio Zurlini in La prima notte di quiete (1972) accanto ad Alain Delon. Nel 1977 partecipa al film di Roberto Benigni Berlinguer ti voglio bene diretto da Giuseppe Bertolucci; nello stesso anno Dario Argento le affida due ruoli inquietanti in Suspiria (1977) e Inferno (1980).
Vince per la seconda volta il David di Donatello alla carriera nel 1991 (il primo l’aveva vinto nove anni prima come miglior attrice non protagonista per La caduta degli angeli ribelli) e nel 1997 il Leone d'Oro alla carriera a Venezia.
Il teatro l’aveva attirata molto presto: nel gennaio del ‘46 Alida aveva debuttato al Teatro Biondo di Palermo con Raoul Grassilli, Tino Buazzelli, Andrea Bosic in La casa dei Rosmer di Ibsen.
Nel ‘67 recita in Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, con Raf Vallone, Massimo Foschi e Lino Capolicchio, diretto da Raf Vallone, nel '69 in Il Dio Kurt, di Alberto Moravia, con Luigi Proietti, con la regia di Antonio Calenda. Nel ‘73, ne Il gabbiano di Anton Cechov, è con Carlo Simoni, Roldano Lupi e Ernesto Calindri, regia di Fantasio Piccoli.
La sua ultima apparizione sul palcoscenico è del 1988 in La città morta di Gabriele D’Annunzio con la regia di Aldo Trionfo.
Fra gli ultimi film Il lungo silenzio di Margarethe von Trotta (1993) e sei anni dopo Il dolce rumore della vita di G. Bertolucci.
Molte le sue interpretazioni per la televisione: indimenticabile Piccolo Mondo Antico (con la regia di Salvatore Nocita del 1989), e L’eredità della Priora (regia di Anton Giulio Majano nel 1980).
Quando Alida muore a Roma nel 2006, poverissima, sostenuta soltanto dalla pensione della legge Bacchelli, Bernardo Bertolucci la ricorda con queste parole: «Un mito, una dea».

Mariateresa Fumagalli e Lia Del Corno

Mariateresa Fumagalli, Professore di Storia della filosofia medievale all’Università degli Studi di Milano, condirettore della Rivista di Storia della Filosofia fondata da M. Dal Pra, e delle collane Quodlibet (Lubrina, Bergamo) e di Filosofia (Franco Angeli).

Lia Del Corno, Nasce e vive a Milano. Traduce (molto) dal francese, inglese e tedesco e scrive (poco) per Adelphi, Garzanti, Mondadori, RCS Libri, ma soprattutto si è occupata di teatro e ha curato le proposte culturali del Piccolo Teatro di Milano, del Franco Parenti e del Teatro Popolare di Roma. È sua l’idea delle lezioni-spettacolo che ha promosso con energia e entusiasmo. Attualmente continua l’attività di traduttrice; scrive libretti di opere liriche dedicate soprattutto ai giovani, firma qualche scenografia e disegna costumi.

Voce pubblicata nel progetto Enciclopedia delle donne

sabato 19 novembre 2011

Sara Nathan

Pesaro 1819 - Roma 1882


Sara Levi, detta Sarina, nasce a Pesaro il 7 dicembre 1819 e muore a Roma il 19 febbraio 1882. Sarina era nata da Angelo Levi (quondam Salomone di Senigallia) e dalle seconde nozze di Ricca Rosselli, figlia di Emanuel e Sara Bises. Da Roma i Rosselli si erano trasferiti nei primi decenni dell’Ottocento a Livorno. Sarina era dunque cugina dei Rosselli e aveva conosciuto il futuro marito, Moses Nathan, a Livorno, dove si erano sposati il 29 maggio 1836. Mayer Moses Nathan (Rodelheim, 22-4-1799/ Vicky, 4-8-1859) era nato in Germania, a Rodelheim presso Francoforte, e aveva dunque vissuto a lungo a Parigi. Agente di cambio, divenne cittadino britannico nel 1850. C’è chi avanza l’ipotesi che in realtà Nathan fosse un figlio, forse naturale, dei Rotschild, andatosene dalla Germania per dissapori familiari. Dal matrimonio di Sara e Moses nacquero dodici figli: David, Henry, Janet, Adolfo, Ernesto, Harriet, Giuseppe, Filippo, Walter, Alfredo, Ada, Beniamino. I Nathan che decisero poi di vivere in Italia sono: Ernesto (Londra, 5-10-1845/ Roma, 4-4-1921), il futuro sindaco di Roma; Harriet (Londra, 1837 - Roma 1904), detta Enrichetta, che sposerà Sabatino Rosselli (Livorno 1830 - Roma 1900) e sarà madre di Joe; Janet (Londra, 1842 - Livorno, 1911), detta Giannetta, che sposerà Pellegrino Rosselli (Livorno, 1834 - Livorno, 1911). Ernesto sposerà invece Virginia Mieli, conosciuta a Pisa (dove la famiglia Nathan si era trasferita nel 1859), figlia di Anna Rosselli, sorella dei quattro capostipiti livornesi Rosselli.
Sara Nathan è soprattutto ricordata per il suo impegno politico e per le sue iniziative sociali. Fu infatti una fervente patriota, tanto da aiutare Mazzini durante il suo esilio a Londra intorno al 1840 e a Lugano dal 1865. Anche i suoi figli seguirono la causa mazziniana, tanto da essere arrestati, come nel caso di Giuseppe. Del resto Mazzini morì a Pisa nel 1872, proprio a casa di Giannetta Nathan e Pellegrino Rosselli.
Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1859, Sarina decise di trasferirsi con la sua famiglia a Pisa e più tardi a Milano, svolgendo un importante ruolo politico per il Partito d’Azione fondato da Mazzini. Per questo, Sarina cominciò ad essere sorvegliata, finché la sua casa venne perquisita. Accusata di cospirazione, riuscì a fuggire prima di essere arrestata e riparò a Lugano. Qui, dopo aver vissuto a Castagnola e in particolare a Cassarate in casa Galli, il 1 agosto 1865 Sarina acquistò da Abbondio Chialiva la villa denominata “La Tanzina”, dal nome del suo primo proprietario, il conte milanese Franco Tanzi. La Tanzina sorgeva sulla sponda occidentale del lago di Lugano, fuori del rione Nassa, compresa fra il tempietto di Washington e la wellingtoniana. La Tanzina venne abbattuta nel 1908, lasciando spazio per la costruzione del lungolago che dal giardino della Tanzina va a Paradiso. In questa villa visse Mazzini fino al 1871 – negli stessi anni in cui Cattaneo abitava a Castagnola -, quando ritornò in Italia sotto lo pseudonimo di mister Browne, ospite della figlia di Sarina a Pisa.
Dopo la l’unificazione italiana, compiutasi nel 1871 con la conquista di Roma, Sarina tornò a vivere a Roma, dove già alcuni dei suoi figli si erano stabiliti. Qui dette origine a numerose iniziative educative, filantropiche e sociali. Fondò tra l’altro nel quartiere di Trastevere una scuola intitolata a Mazzini, dove le ragazze potevano studiare e apprendere i principi morali della sua opera sui Doveri dell’uomo. Sarina aprì inoltre una casa per prostitute, l’Unione benefica, con l’intento di prevenire la prostituzione, offrendo a ragazze indigenti o in difficoltà alloggio, mezzi e possibilità di lavoro.
Amelia Rosselli ricorda Sarina nelle sue memorie con queste parole: «Sara Nathan, la madre dei nove fratelli Nathan e delle tre sorelle (una delle quali fu madre di mio marito). Donna di grande volontà, di grande intelligenza, la sua figura sempre grandeggiò nel ricordo dei figli, offuscando del tutto quella del padre, anche dopo morta. Per lunghissimi anni, nel giorno anniversario della sua morte, il 19 febbraio, i figli e le figlie di Sara Nathan convenivano dai punti più lontani d’Europa e si riunivano intorno alla sua tomba, a Campo Verano, a Roma. Il 20 febbraio, altra riunione, alla Scuola Mazzini nel popolare quartiere di Trastevere, fondata dalla famiglia Nathan in omaggio alla memoria di Giuseppe Mazzini: scuola a-religiosa, dove l’insegnamento religioso era sostituito dalla lettura e commento dei Doveri dell’Uomo. La Scuola era frequentata dalle ragazze del popolo, e oltre allo studio le iniziava a diversi mestieri. Insegnavano, per lo studio, alcune delle sorelle Nathan, e più tardi anche le nipoti, cioè la nuova generazione che cresceva e veniva educata agli stessi ideali.»

 

Marina Calloni

Ordinario in filosofia politica e sociale presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca, vincitrice di un concorso per l’incentivazione del rientro di studiosi in Italia ("rientro dei cervelli"). È stata borsista all’Università di Francoforte presso J. Habermas e senior researcher presso la London Scool of Economics and Political Science di Londra.
 

La voce fa parte del progetto Enciclopedia delle donne consultabile nel sito http://www.enciclopediadelledonne.it/

mercoledì 16 novembre 2011

Galeotto fu il libro

Geltrude Pellegrini (Monteguidone 1806 circa - Roma 1838)

Ne ha viste saltare così tante di teste Mastro Titta - e non in senso metaforico - che ormai ci ha fatto il callo. L’infaticabile boia non si spaventa certo davanti a un po’ di sangue, ma quella del 9 gennaio 1838, in via dei Cerchi, non è una decapitazione di routine. La folla è immensa, stipata in strada, alle finestre, con tanto di binocolo per vedere meglio lo spettacolo. Inusuale, perché al patibolo non è atteso uno dei soliti brutti ceffi, ma una ragazza affascinante ed educata. Assassina per amore. Geltrude Pellegrini arriva, assistita dai confratelli dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, scende dalla carrozza, sale con passo fermo i gradini, bacia il crocifisso e si prepara per l’esecuzione.
La storia della giovane originaria di Monteguidone, in provincia di Rieti, la conosciamo grazie al romanzato racconto del carnefice. Geltrude è una bellissima ragazza corteggiata da tutti. Scrive, ricama, fa di conto. La madre è orgogliosa, ma anche un poco preoccupata. Invece di cercare marito la figlia passa il tempo a leggere libri. Oggetti a volte pericolosi, perché possono mettere in testa strane idee. D’estate Geltrude trascorre ore e ore sui prati alle prese con il suo mondo fantastico. Finché un giorno realtà e finzione arrivano quasi a toccarsi.
Sembra infatti uscito da un romanzo il bel giovane alto e biondo che la ragazza si trova di fronte un pomeriggio d’agosto. Un cacciatore, con il fucile in spalla. Vive a Roma e si è perso nella macchia. Per tutta la notte Geltrude non chiude occhio, non fa che pensare a lui. Il giorno dopo, nuovo incontro. Galeotto fu il libro... Da allora, ogni volta è un vortice di baci, abbracci, sospiri. Passione. Fino alla doccia fredda. Enrico è sposato. Le sembra di impazzire e tronca tutto. Tre mesi dopo, il matrimonio riparatore. Francesco Stefanotti è un ricco bottegaio sulla quarantina. Geltrude va a vivere con lui a Roma, lavora nel suo negozio. Un giorno uguale all’altro. Tutta routine, niente emozioni.
Finché una mattina davanti alla bottega di Geltrude passa un corteo funebre. Lei si affaccia, curiosa. È morta una donna di parto. Ma non una qualunque. La moglie di Enrico. Sviene. Una settimana dopo lui si fa vivo, di nascosto le dà un biglietto. Domenica alle 10 a San Pietro. Geltrude è sicura, non andrà. Invece va. La passione è viva, riprendono gli appuntamenti clandestini. A ruoli invertiti.
Un imprevisto fa saltare il precario equilibrio. Il marito cede il negozio. Può permetterselo e non gli pare vero di dedicare più tempo alla moglie. Per lei è un dramma. Vede svanire la possibilità di incontrare Enrico. Deve liberarsi di lui. Non ha scelta.
Dopo una serata di sesso intenso, appena il marito si addormenta, sfinito, Geltrude prende un affilato coltello e glielo affonda nel petto. Poi si veste, raccoglie le sue cose, i valori, il denaro. Mette tutto in due valigie e esce.
Si presenta a casa dell’amante alle prime luci dell’alba. Spossata, ma leggera. Sono finalmente liberi, entrambi. Enrico la accoglie in modo freddo, scostante. Pensa sia fuggita di casa ed è terrorizzato dalla responsabilità. Geltrude gli racconta cosa è successo. L’uomo inorridisce. Tutto intorno a lei inizia a girare vorticosamente. Si sente mancare le forze. È arrivata a uccidere per stare con lui e ora viene respinta. La vita non ha più senso. Se ne va, con le due valigie. Prende una carrozza, si fa portare dal monsignor Fiscale. Al magistrato confessa il delitto nei particolari. Tace solo il nome dell’amante. Non tradisce, nonostante il dolore e la delusione. Su questo è irremovibile, per tutto il processo. Al termine del colloquio Geltrude Pellegrini, proveniente da Rieti, di anni ventiquattro, professione donna di casa viene condotta nelle segrete delle Carceri nuove. È il 29 giugno 1830. L’accusa è di parricidio. Definizione allora usata per qualsiasi uccisione di un parente.
Nel dicembre 1832 c’è la prima sentenza. Pena capitale. Il ricorso al Tribunale della Sacra Consulta si conclude il 31 dicembre 1836 con la definitiva condanna «a morte di esemplarità». Che in genere «si eseguisce colla fucilazione alle spalle». Per Geltrude, invece, c’è la ghigliottina.
Lo spettacolo in piazza è molto atteso. Perché le donne romane dell’Ottocento non sono stinchi di santo, ma le questioni di vicinato, gelosia o rivalità amorose le risolvono al massimo a suon di botte e coltellate. Sempre violenza, certo, ma ben diversa dall’omicidio.
Mastro Titta nelle sue memorie ricorda: «Non appena fu caduto sotto il colpo della ghigliottina, afferrai per i capelli il capo della bellissima donna e sollevandolo lo mostrai alla folla attonita e commossa come non mi era mai accaduto di vedere». Chissà che un brivido non abbia attraversato anche la sua schiena.

Paola Staccioli

martedì 8 novembre 2011

Cimone e Pero ovvero la Carità Romana

Se ti trovi a passeggiare per il centro di Roma, nei pressi della chiesa di San Nicola in Carcere al foro Olitorio, osserva alla destra della chiesa la piccola area archeologica al confine con il Teatro di Marcello.

È il luogo ove ebbe luogo la toccante storia di Cimone e di sua figlia Pero, ai tempi della Repubblica Romana.
Il vecchio Cimone si trovava in catene in un carcere, condannato a morire di fame per un reato ignoto.
Sua figlia, Pero, ottiene il permesso per entrare nel carcere a patto di non portare cibo al condannato. Ha partorito da poco e allatta il suo piccolo. Con lo stesso latte, di nascosto, nutre il padre. Così passa il tempo, Cimone non muore.
Il carceriere comincia a sospettare che qualcosa di strano stia accadendo e controlla di nascosto ciò che fa la donna ogni qual volta si reca in visita dal genitore. Coglie in flagrante Pero mentre sta allattando Cimone, ma le autorità, commosse per il gesto disperato di “pietas” della donna, concedono a Cimone la libertà.
In memoria di questo evento, Quinctio M. Acilio fece costruire un tempio dedicato alla Pietas, ove ora si trova il Teatro di Marcello.

Questa storia è stata ripresa nell’antichità da più autori, tra questi Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia ove egli narra la vicenda con una variante: in carcere è reclusa la madre della donna e conclude il racconto con la frase “quo miraculo matris salus donata filiae pietati est”.

Nei secoli e nei millenni questo toccante racconto è stato ripreso nelle forme più varie: Caravaggio lo rappresenta nel suo quadro “Le sette opere di misericordia”, Peter Paul Rubens ne dipinse varie versioni.

giovedì 3 novembre 2011

Maria Durante, la nonna sine qua non

Classe 1892… Nasce quasi 120 anni fa a Via Lanza, da una famiglia romana da sette generazioni. Uno zio attore e poeta dialettale conosciuto, Checchino che con la moglie Anita, per anni ha calcato le scene.

Maria è la seconda di tre fratelli. Una fibra forte. E tante disgrazie da raccontare. Il padre muore prestissimo. E la madre lascia i figli ancora ragazzi per una polmonite "fulminante". Succedeva spesso prima dell’era degli antibiotici. Anche la bella sorella minore muore giovane, nel 1919 portata via dall’epidemia di febbre "spagnola" che seguì la Grande Guerra e che in Europa provoca più morti della guerra stessa. Il fratello la mantiene agli studi ma non sopravvive per molto. Muore anche lui di polmonite negli anni '30 dopo essere riuscito a salvarsi a nuoto da un naufragio al largo di Anzio.

Intanto Maria, fra tante disgrazie familiari, non si è persa d’animo. Appena diplomata all’istituto magistrale ha trovato lavoro. Prima alle Poste. Nel 1910 a soli 18 anni è una delle prime "signorine radiotelegrafiste". Poi alla Società Anglo Americana. L’azienda che a Roma ha portato una grande novità. La corrente elettrica. Lei fa la segreteria-dattilografa. Corre sempre, attiva e dinamica con i suoi 20 anni. E correndo, correndo provoca l’incidente che le cambierà la vita.

All'angolo di un corridoio va veloce sui tacchi, con in braccio una pila di pratiche da archiviare, e… travolge il suo capo, il temuto Ingegner Romolo. Cadono a terra insieme, tra fogli che volano e le risatine impaurite delle colleghe. L’ingegnere si rialza, aiuta la maldestra impiegata, tutta rossa di vergogna e di paura… Forse sarà licenziata! Ma no, al contrario. Tra i due nasce l’amore. Poco dopo il fidanzamento ufficiale e le nozze. Maria lascia il lavoro, come si usava al tempo, e va a vivere con il marito in una casa popolare costruita ai margini della città, sui prati che guardano verso Monte Mario.

Lì nascono due figli che l’ingegnere, laico e positivista, battezza Sirio e Elio. Una stella e un gas… Se fosse nata una bambina si sarebbe chiamata Selene. Una scelta anticonformista per i tempi... Il primogenito nasce nel 1922. Sotto le finestre della clinica risuonano urla e spari. Squadracce fasciste stanno assaltando una sede del Partito Socialista.

Romolo e Maria continuano la loro vita tranquilla. Non senza piccoli gesti che all’epoca sono forse eroici. Il marito rifiuta la tessera del Partito fascista e il sabato sfoggia le sue camicie più immacolate, disertando adunate e riunioni di caseggiato. Passa qualche guaio, rischia di perdere il lavoro, poi fortunatamente tutto si acquieta. Ma niente carriera. E la sera, per arrotondare lo stipendio con il tram va ad insegnare in un istituto tecnico per studenti lavoratori. I figli fanno comunque il loro tirocinio da Balilla, poi crescono e vanno all'università. Maria bada alla casa e li cresce con amore.
Dopo la guerra, Mussolini finisce a Piazzale Loreto. I figli si sposano. Il marito muore prematuramente nel 1964. A riempire il vuoto ci sono i nipoti. Una vita da pensionata lunga e piena di attività.

Rimane sempre una donna intelligente e curiosa. Lei, cattolica e borghese anche se di anima popolana, ha sempre votato per la Democrazia Cristiana. Ma poi arriva il referendum contro il divorzio. E nel 1974, a 82 anni, lei si indigna contro gerarchie cattoliche e politici bacchettoni. L’esperienza della sua lunga vita conta più delle indicazioni del Vaticano. E non può certo votare come Almirante. Vota no. E alle successive elezioni vota… repubblicano. Poi, forse per far piacere ai nipoti, arriva a votare per il Partito comunista di Berlinguer. Fa in tempo a vedere l’elezione di Pertini e di papa Wojtyla, l’omicidio di Aldo Moro. Sembra che il tempo le scivoli addosso senza cambiarla. Nella sua vecchia casa, con un gatto e l’immancabile lavoro a maglia sulle ginocchia. Il Rischiatutto di Mike Buongiorno il giovedì sera. Sopportando con saggezza i nipoti che le invadono casa con con ragazze e amici, musica e un tavolo da ping-pong. Una sera, a 97 anni, si addormenta sulla poltrona e non si sveglia più.

Mi manchi, Nonna Maria.

 
Marco Di Renzo

mercoledì 2 novembre 2011

La strillona stravagante

Fino a non molti decenni fa, in epoca pretelevisiva, era la voce degli strilloni a far arrivare all’orecchio dei romani gli eventi storici come quelli più minuti. I giornalai ambulanti, spesso circondati da capannelli di curiosi, comunicavano lo scoppio di una guerra come un uxoricidio, la morte di un papa o una vittoria della Roma. A piazza Fiume, alla Galleria Colonna, a Piazza Venezia, ai capolinea dei tram e negli altri luoghi affollati della città si sentiva gridare: È uscita la Tribunachi magna e chi digiuna, una frase che ricalcava lo spirito sarcastico e bonaccione del «romano de Roma».
Angelina Biancatelli, chiamata da tutti la sora Nina, era la strillona più conosciuta. Una popolana bassina e paffutella che infarciva di doppi sensi i suoi commenti piccanti e maliziosi interpretando, con ironica e a tratti amara semplicità, la politica, la cronaca, l’economia, il costume. Un Pasquino in carne e ossa, insomma. Che invece di urlare come tutti gli altri borbottava, fra i vicoli e le piazzette dei rioni storici della vecchia Roma, con la sua voce roca, brontolante, e con il tono monotono e privo di enfasi di chi recita un rosario. Solo a tarda sera si concedeva, sempre carica di quotidiani, qualche incursione lavorativa nella mondanità di via Veneto.
Pian piano però la sora Nina si inoltrò per una strada un po’ particolare. E chi si precipitava a comprare il giornale per leggere di formiche giganti a Ostia Lido, fughe di rinoceronti dal Giardino zoologico, retate di briganti a Piazza del Popolo, e persino di incontri amorosi del papa, rimaneva poi deluso. Negli articoli non c’era traccia di tutto ciò. I fatti sempre più sorprendenti che Angelina annunciava accadevano solo nella sua fantasia.
Così, alla strillona considerata dai benpensanti troppo stravagante e trasgressiva fu tolta la licenza. Con un po’ di immaginazione, probabilmente, qualcuno affermò che a decidere fu il Ministro dell’Interno in persona, il democristiano Mario Scelba. La stessa Angelina ci ironizzava su: «Scelba me lo ha proibito perché le dicevo troppo grosse... So’ disgraziata perché so’ invidiata. Sto senza denti, sto senza stommico, ma cio’ la forza de spirito; so’ sverta e vendo le corna».
Proprio così. Non potendo più dispensare notizie, tornò in strada a spacciare fortuna, proponendo un bizzarro armamentario antiscalogna composto da corni, ferri di cavallo, quadrifogli e tredici in quantità.