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martedì 11 settembre 2012

Venanza Spuntarelli, una vita a servizio

Una volta, non tanto tempo fa, i lavori adesso appannaggio di immigrati da paesi lontani erano svolti dalle ragazze delle regioni più povere d’Italia che venivano a lavorare nelle famiglie borghesi di Roma. Venivano dalla lontana Sicilia o dalla Sardegna, con viaggi che negli anni ’50 e ’60 del 1900 dovevano sembrare lunghissimi. O dalla campagna in corso di spopolamento di regioni vicine, per cercare di “campare la vita” in città. Molte ragazze venivano dalle montagne dell’Abruzzo. Venanza invece era marchigiana. Come si usava allora il fratello maschio aveva ereditato le terre e un lavoro spesso faticoso e marginale, mentre la figlia femmina emigrava.
Venanza era grossa, rubiconda. Come una matrioska russa era rossa in viso con l’eterna "parainnanzi" legata a fare da cintura sopra la gonna. Le ciabatte sformate che ancora porta qualche rara vecchia comare trasteverina.

Era arrivata a casa nostra da Visso insieme alla sua lingua un po’ rozza, a un'ignoranza saggia non guastata dai tre anni passati in una scuola elementare che immaginavo ai lati di una strada bianca con un cancelletto verde. La luna per lei era popolata dai fantasmi di Caino e Abele. Il sole continuava tranquillo a girare intorno alla terra, quattro secoli dopo Galileo. Parlava per proverbi. Se un giorno noi bambini eravamo agitati avevamo sicuramente “mangiato gli zompi”. Lasciare qualcosa nel piatto era un sacrilegio perché “è meglio che il corpo crepi che la robba se sprechi”. Il pane secco veniva riciclato per le cotolette della domenica. L’olio fritto era filtrato e riutilizzato ad oltranza. Persino il grasso del pollo arrosto veniva conservato e fatto affiorare in frigorifero per cucinare certe frittate di patate, certo non dietetiche ma piene di sapori antichi. Sapeva però distinguere ad intuito il buono dal cattivo, Il giusto dall’ingiustizia. E mal sopportava i capricci dei “suoi bambini” troppo viziati, che sgridava e puniva senza chiedere il permesso a nessuno.

Occupava una stanzetta cieca, larga poco più del suo letto, che dava su un bagno di servizio dove aleggiava sempre un odore fatto di sapone da bucato e di vestiti sporchi, di vecchie scarpe e stracci bagnati. Su una sedia le sue riviste preferite. L’ultimo numero di Grand’Hotel, un fotoromanzo in bianco e nero. Sopra, a coprire queste letture peccaminose la vecchia edizione nera e rossa dei Vangeli. Il pomeriggio, se rimanevo solo a casa, mi toccava accompagnarla a far visita al portiere in guardiola oppure seguirla in chiesa, per la novena di maggio o la via crucis pasquale. Metteva allora una gonna più scura e si copriva il capo con un fazzoletto ricamato. Lo stesso vestito lo indossava il giovedì e la domenica pomeriggio per le sue ore di libertà o per le visite ai parenti.

Trent’anni vissuti così senza lasciare la nostra casa. Solo quindici giorni di vacanza l’anno a "fare i lavori" nella casa del fratello. Vivendo solo per noi.  Un giorno scoprì di essere malata. Un tumore all’intestino. Che accettò con la pazienza e la rassegnazione con la quale un tempo si accettavano tutte le disgrazie della vita, come la morte. Dopo qualche mese però tornò guarita. Ma ormai era diventata un peso e se ne dovette andare. La andai a trovare una volta nella sua campagna. Ormai era stanca e come inselvatichita. In mio onore uccise un povero piccione e lo cucinò. Ricorderò per sempre quel piccione.

Marco Di Renzo

lunedì 10 settembre 2012

Tanaquilla, la regina che regnò due volte - VII secolo a.c.

Non ebbe tanta fama nella letteratura, fu vista come un personaggio oscuro.

Tito Livio nel suo “Ab Urbe Condita” ci racconta che era una donna etrusca, appartenente ad una famiglia aristocratica di Tarquinia. Lì conobbe Lucumune, figlio di Demarato, originario di Corinto. Alla morte del padre, Lucumone ereditò tutto il patrimonio, ma essendo straniero, veniva trattato con diffidenza, tenuto lontano dal potere.

Si innamorò di Tanaquilla. E lei di lui. Con la decisione di dirigersi verso la giovane Roma, si accende la speranza che lì le porte potrebbero aprirsi.

Sempre Livio ci racconta il viaggio, attraverso i monti ed il lago di Bolsena. Poi seguendo la costa laziale, risalirono il Tevere, fino alla città allora governata da Anco Marzio. Un’aquila, nei pressi del Gianicolo, porta via il cappello dell’uomo, poi lo rimette al suo posto: è il segnale dal cielo, l’auspicio favorevole.

Lucumone, giunto a Roma, cambia il suo nome in Lucio Tarquinio Prisco. Con l’aiuto della moglie emerge in ogni campo sociale: militare e civile. Diventa notissimo in tutta l’Urbe. È sempre Tanaquilla a consigliarlo nelle decisioni, a guidarlo.

Anco Marzio muore, Prisco fa una convincente campagna elettorale e vince. Diventa il quinto re di Roma!

Sotto il suo regno Roma cresce, è una città piena di vita, sono celebrati giochi. Ma lui si fida solo della moglie, la quale vive nell’ombra. Lei pensa al loro futuro. Una nobildonna sua amica ha un figlio: Servio Tullio. Quest’ultimo sposa una delle figlie del re. I figli di Anco Marzio comprendono il pericolo di rimanere fuori dai giochi e uccidono il re Tarquinio.

Ma Tanaquilla nasconde la morte del marito e gli fa dire che ha nominato reggente ad interim di Roma il genero Servio Tullio: è il primo caso a Roma di un re nominato dal suo predecessore.

In realtà, Tanaquilla diventa regina per la seconda volta e scompare nuovamente dalla scena. Ma continua la sua attività di consigliera. Negli anni a seguire le sue reliquie, un mantello  confezionato per il marito - e un ferma capelli sono oggetto di venerazione nel tempio della dea Fortuna.
Giovenale la definisce fredda, strega e cospiratrice. Però, forse, le fortune future di Roma dipenderanno proprio dalle sue azioni e dai suoi consigli.

M. R.

lunedì 3 settembre 2012

Ersilia, la moglie del re

Lei, sabina, era la moglie di Osto Ostilio, un romano, amico di Romolo.
Quel 21 agosto di circa 2750 anni fa si era nel pieno dei festeggiamenti dei Consualia, in onore del dio Consus.
Ad un cenno del re, i Romani strapparono ai Sabini - giunti per l'occasione - le loro donne. Nel trambusto generale, Romolo ebbe proprio lei: Ersilia. Anche se per errore. Era una donna che non si risparmiava per gli altri, anzi durante il ratto tentò di proteggere le ragazze.

Nei mesi successivi i Sabini si organizzarono, comandati dal loro re Tito Tazio. Nel frattempo si celebravano i matrimoni tra Sabine e Romani. Nacquero i figli di queste unioni.

Venne il giorno in cui Tazio con i suoi guerrieri attaccò i Romani. Voleva riprendersi le figlie del suo popolo, strappate a loro brutalmente. Ebbe inizio la battaglia con alterne fortune. Ma lei aveva il suo piano: con tutte le altre donne si precipitò nel campo ove infuriavano gli scontri tra i due eserciti, il futuro Foro Romano.
Con le sue grida:
"uccidete noi, non vogliamo piangere i nostri mariti ed i nostri padri. I Sabini ed i Romani, ormai, sono un unico popolo!"
le donne si interposero tra i duellanti, fermarono il conflitto fratricida.

Avvenne ciò che lei auspicava: Romani i mariti, Sabini i padri, uniti fra loro.
La prima guerra romana era terminata e nel migliore dei modi. Il tempo passò, Romolo ascese in cielo, ma più probabilmente fu ucciso dai suoi stessi senatori che temevano il suo eccessivo autoritarismo. Gli fu eretto un tempio sul Quirinale, il suo nome mutò in dio Quirino.

Lei rimase sola e con il suo pianto impietosì Giunone, la quale le mandò Iride, la dea dell'arcobaleno. Fu accontentata: con il bagliore di una stella raggiunse il suo sposo.

Così Ersilia/Hora fu per l'eternità la sposa di Romolo/Quirino.

E. L.